L’inizio degli anni ’80 segna anche l’apertura del Tibet al turismo internazionale. Dapprima solo a pochi viaggiatori selezionati e rigidamente inquadrati in seguito anche a gruppi più numerosi e meno controllabili di turisti, viene data la possibilità di visitare il Tetto del Mondo che sembra essere alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turismo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranieri che il più delle volte simpatizzavano apertamente per la causa e le ragioni del popolo tibetano. Per la prima volta i tibetani, specialmente quelli di Lhasa e delle regioni centrali, poterono incontrare direttamente delle persone che parlavano con simpatia della loro cultura, sia religiosa sia laica del Tibet, e che in alcuni casi si dichiaravano anche discepoli di maestri spirituali tibetani e dello stesso Dalai Lama. Questi incontri prepararono il terreno per una rinascita della resistenza che riprese la lotta per la libertà del Tetto del Mondo. Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso statunitense, il Dalai Lama espose un Piano di Pace in Cinque Punti che costituiva una seria e articolata proposta per intavolare delle trattative su basi realistiche con il governo di Pechino per risolvere il problema del Tibet. Purtroppo la dirigenza cinese rispose negativamente al Piano del Dalai Lama e a Lhasa esplose la collera della gente. Il 29 settembre e il 1° ottobre migliaia e migliaia di persone diedero vita a manifestazioni di protesta che la polizia represse con inaudita violenza. Secondo fonti non ufficiali 32 tibetani vennero uccisi e oltre duecento feriti.
Queste dimostrazioni segnano l’inizio di una nuova stagione della resistenza delle donne e degli uomini del Paese delle Nevi e da allora grandi e piccole manifestazioni avvengo quasi quotidianamente a Lhasa e in molte altre località del Tibet. Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni per il capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano a scandire slogan contro l’occupazione cinese e l’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Ore di scontri davanti al tempio del Jokhang si concludono con un tragico bilancio. Ventiquattro laici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi di manganello, davanti e dentro al Jokhang. In seguito parti di un video girato dalla stessa polizia cinese, contenente alcune terribili immagini di questo massacro, vennero trafugate da membri della resistenza tibetana e riuscirono a raggiungere il mondo esterno dove causarono una enorme impressione. Era il primo inoppugnabile documento visivo di quale sorte attende in Tibet chi osa dissentire. Mentre in Tibet si continua a inscenare brevi manifestazioni che cercano di sciogliersi prima dell’arrivo della polizia, il 15 giugno 1988 il Dalai Lama presenta nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo una ulteriore elaborazione del suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto a rinunciare all’indipendenza in cambio di una effettiva autonomia di tutte e tre le province tibetane. Però nemmeno l’essersi spinto così avanti nelle sue concessioni servì al Dalai Lama per convincere Pechino ad aprire un reale negoziato. I dirigenti cinesi continuarono a porre inaccettabili condizioni al Dalai Lama o, peggio, a liquidare le sue dichiarazioni con poche e sprezzanti battute mentre significativi settori del popolo tibetano si dichiararono del tutto contrari ad una apertura che comportava la definitiva rinuncia all’indipendenza. Intanto in Tibet la tensione continuava ad essere altissima. Il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, alcune centinaia di persone manifestarono nuovamente a Lhasa davanti al Jokhang chiedendo libertà civili e autodeterminazione. La polizia cinese reagì, ancora una volta, con brutalità sparando con armi automatiche sulla folla inerme causando diciotto morti e centinaia di feriti tra i quali anche una giovane olandese, Christa Meindersma che si trovava in Tibet in qualità di collaboratrice della Croce Rossa svizzera.
In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989 muore, in circostanze misteriose, il 10° Panchen Lama che si trovava nel suo monastero di Tashilumpo per celebrare alcuni riti. Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita ad un infarto ma il fatto che solo pochi giorni prima della sua scomparsa il Panchen Lama avesse rilasciato ad un giornale cinese una intervista in cui accusava apertamente Pechino di essere responsabile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibetani che il Panchen Lama fosse stato avvelenato dai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. I sospetti sulle vere cause del decesso della seconda autorità spirituale del Tibet gettano altra benzina sul fuoco della tragedia tibetana. Il 5 marzo oltre diecimila persone scendono in piazza a Lhasa dando vita alla più imponente manifestazione dai tempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni si scontrano a più riprese con l’apparato repressivo di Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasa per quasi un’intera giornata. La risposta cinese a queste dimostrazioni è durissima. Secondo fonti non ufficiali diverse centinaia di tibetani perirono negli incidenti e nella repressione che seguì. Tre uomini di affari occidentali che si trovavano nella capitale del Tibet in quei giorni parlarono di oltre cinquecento morti. Il 7 marzo viene imposta a Lhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30 aprile del 1990.
Questa nuova ondata di manifestazioni fa crescere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio di piazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibetano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferimento al Dalai Lama del Premio Nobel per la Pace 1989, è il segno più evidente di questo interesse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensifica i suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi di Stato, di governo e parlamentari. Mentre in Tibet, dove la repressione è tale da non consentire manifestazioni di massa, continua però lo stillicidio di piccole dimostrazioni a Pechino nessuno vuole dare risposte positive alle richieste del Dalai Lama. Piano di Pace in Cinque Punti e Proposta di Strasburgo continuano ad essere liquidati come “tentativi mascherati di dividere il Tibet dalla Grande Madrepatria Cinese ” e rimangono quindi senza risposta. Ma se il Dalai Lama non ottiene nulla da Pechino il suo messaggio viene invece recepito da molti uomini politici internazionali, in modo particolare dal Parlamento Europeo che dopo aver approvato numerose risoluzioni di condanna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il 13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranza un documento in cui si considerata il Tibet uno stato sotto occupazione illegale. E lo stesso Parlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo, accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai Lama il 23 e il 24 ottobre 1996.
Nel mondo intanto la questione del Tibet comincia ad essere sostenuta da un numero sempre crescente di persone. Negli USA tre grandi Tibetan Freedom Concert a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani rendono popolare la lotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colleges e nelle università. In Europa il 10 marzo del 1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifestazione internazionale per la libertà del Tibet che sarà replicata con altrettanto successo a Ginevra nel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle sale di tutto il mondo escono diversi film sul Tibet e sul Dalai Lama. Tra l’altro nel dicembre 1997 la Commissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.) di Ginevra aveva pubblicato un secondo documento sul Tibet (6) che mette a nudo la gravità della situazione e chiede alle Nazioni Unite di intervenire. In particolare la C.I.G. chiede all’ONU di far discutere all’interno dell’Assemblea Generale il caso tibetano, di nominare un Inviato Speciale per indagare sulle effettive condizioni di vita dei tibetani, e di attivarsi per far svolgere in Tibet un referendum con il compito di accertare quali siano i veri sentimenti del popolo tibetano riguardo alla situazione del loro Paese. E poiché il popolo tibetano in Tibet non può parlare se non a rischio della vita o della prigione, gli esuli in India decidono di dar loro la voce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militanti della Tibetan Youth Congress (cinque uomini e una donna) iniziano uno sciopero della fame ad oltranza per sostenere le richieste della Commissione Internazionale dei Giuristi. Al 49° giorno di digiuno la polizia indiana interviene ospedalizzando con la forza i sei e impedendo loro di continuare fino all’estremo sacrificio la protesta. Sconvolto per questa ennesima prevaricazione contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibetano di 50 anni che aveva accudito i digiunatori fin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per protesta e muore dopo pochi giorni con oltre il 95% del corpo gravemente ustionato. La foto di Tupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa in poche ore il giro del mondo. E’ auspicabile che quelle fiamme possano rischiarare la notte del popolo tibetano e contribuire a mettervi fine.
Note: (6) Tibet: Human Rights and the Rule of Law, Ginevra 1997
Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni