Corriere della Sera, 27 ottobre 2008
Pechino. “Basta. Rinuncio”. Anche il Dalai Lama perde la pazienza o, peggio, la speranza. Niente più tentativi di dialogo con la Cina, sia pure per interposti emissari. Il leader in esilio del Tibet lo ha detto ai suoi sabato a Dharamsala, il suo quartier generale in India. Una resa o una presa d’atto dell’incomunicabilità sostanziale con Pechino. Anzi: tutt’e due le cose insieme. Pensare di proporre alla Cina che occupò il Tibet nel 1950 uno status di autentica «autonomia» all’interno della Repubblica popolare era diventato per il Dalai Lama un esercizio sterile. Ora, dice l’«Oceano di saggezza », tocca ai tibetani della diaspora dire la loro.
Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, ha definito la propria linea come una «terza via». Moderazione buddhista. Non supina incorporazione nella Cina comunista, che ha fatto diventare i tibetani una minoranza nei loro propri territori e ha imposto unilateralmente (nel bene e nel male) il suo modello di sviluppo. Neppure, però, l’indipendenza vagheggiata dalle frange più estremiste.
Ci rinuncia, il Dalai Lama: “Ho provato sinceramente a portare avanti quest’approccio intermedio, e per tanto tempo. Ma non c’è stata alcuna risposta positiva da parte cinese”. Dunque, “per quel che mi riguarda, lascio perdere. La questione del Tibet non è una faccenda personale del Dalai Lama. È la questione che riguarda 6 milioni di tibetani”.
E qui il leader teocratico sembra lanciare una sfida aperta, benché asimmetrica, a Pechino: “Ho chiesto al governo tibetano in esilio che come autentica democrazia decida la direzione dell’azione futura, in consultazione con il popolo tibetano”.
Da parte sua, la Cina attribuisce al Dalai Lama posizioni indipendentiste che in realtà lui in tempi recenti non ha mai considerato realistiche. Accenni di disgelo erano apparsi all’inizio dell’anno, ma tutto è saltato dopo i disordini a Lhasa e in altre aree tibetane a marzo, con la devastazione di esercizi commerciali gestiti da cinesi immigrati, la violenta repressione, i morti, l’inasprimento della già dura cappa di intimidazione del regime. La retorica contro il Dalai Lama ha assunto toni ancora più intransigenti, comprese le accuse di aver fomentato le violenze.
Tenzin Gyatso, esule dal ’59, è stanco. Ha 73 anni. Da poco gli hanno tolto dei calcoli biliari, si è sottoposto a ripetuti esami medici in India, ha sospeso i viaggi all’estero. E, sul piano politico, patisce le pressioni di settori della diaspora che hanno giudicato inadeguato il suo approccio moderato. Gli oltranzisti indipendentisti del Tibetan Youth Congress gli rendono l’onore delle armi: “Non è che fossimo contro la sua linea, è che la Cina non è mai stata sincera.
Ora Sua santità ha aperto gli occhi a tutti”.
Quello che il portavoce si affretta a dire è che non c’è nessun auto-pensionamento del Dalai Lama in vista. D’accordo rinunciare alla speranza, ma togliere Tenzin Gyatso dall’orizzonte della Cina sarebbe troppo anche per il più deluso degli ottimisti.