Per tutta la notte queste ronde percorrono in lungo e in largo le strade del quartiere tibetano di Lhasa allo scopo di prevenire la benché minima manifestazione di dissenso. Quando mi passano davanti, mi lanciano un’occhiata, infastiditi dalla presenza di uno straniero.
Al sorgere del sole i soldati non se ne vanno ma sono sostituiti da truppe fresche. Lo strettissimo controllo esercitato sulla città prosegue anche durante il giorno, ma con un’aggiunta da brivido: alcuni cecchini si piazzano sui tetti del luogo più sacro della capitale tibetana, il Tempio del Jokhang, pronti a puntare i loro fucili sulle centinaia di pellegrini in preghiera nella sottostante piazza del Barkhor.Le speranze di maggiore autonomia e libertà sono state soffocate da Pechino che, scottata dalle sanguinose rivolte anti cinesi di marzo e dalla vergogna delle proteste che hanno accompagnato la staffetta olimpica, sta infierendo sui tibetani con il pugno di ferro.Durante i quattro giorni della mia permanenza a Lhasa – la prima visita in Tibet di un giornalista australiano dopo i sanguinosi fatti di marzo che hanno causato almeno 200 morti – sono stato testimone oculare di una città sull’orlo di vacillare sotto il peso della forza militare. La massiccia presenza dei soldati tradisce la paura inconfessata della Cina di perdere, anziché di vincere, i cuori e le menti dei tibetani che accusano Pechino di voler annientare la loro cultura e religione in nome dell’unità nazionale.
In un’intervista a The Weekend Australian, il vice governatore della Regione Autonoma Tibetana Bai Ma Cai Wang rivela che recentemente la Cina ha incrementato le misure di sicurezza a Lhasa, ben oltre i livelli adottati dopo la repressione seguita alla rivolta di marzo. Per la prima volta Pechino lo ammette pubblicamente. Afferma il funzionario: “Per garantire la stabilità del Tibet e la sicurezza dei suoi abitanti e per soddisfare il desiderio di sicurezza e ordine della stessa popolazione, il governo ha moderatamente adeguato alla situazione la presenza delle forze di polizia nelle strade”.
Bai Ma dichiara che il governo teme il ripetersi delle manifestazioni della scorsa primavera che – specifica – sono da imputare al lavoro del Dalai Lama e dei suoi sostenitori. “Dopo le manifestazioni del 14 marzo, il Dalai Lama e i suoi seguaci hanno impresso un’accelerazione alle loro attività separatiste”.
Le immagini del Dalai Lama, leader spirituale dei buddhisti tibetani, sono state totalmente messe al bando dai cinesi che lo accusano di essere un attivista politico a favore dell’indipendenza del Tibet. Nei luoghi pubblici non vi è una sua fotografia né un suo ritratto e i tibetani, temendo ritorsioni, sono restii a tesserne pubblicamente le lodi.
“Nelle menti dei tibetani l’immagine del Dalai Lama ormai non esiste più”, dice Bai Ma. Ma la lunga fila di tibetani che aspettano di rendere omaggio alla tomba del precedente Dalai Lama, nell’imponente Palazzo del Potala, e le migliaia di ferventi pellegrini buddhisti che ogni giorno si prosternano davanti al Tempio del Jokhang sembrano smentirlo.
Su invito del governo cinese, che ci ha chiesto di “raccontare agli australiani la verità su quanto avessimo visto e sentito in Tibet”, ho visitato il paese assieme al giornalista Steve Lewis, di News Limited, e al deputato Michael Johnson, vice presidente del gruppo parlamentare Australia-Cina. Hanno acconsentito a farci incontrare alcuni alti funzionari del Partito Comunista, alcuni parlamentari e le autorità governative di Lhasa ma il programma ufficiale non prevedeva incontri con esponenti buddhisti o con chiunque potesse esprimere idee discordanti dalla linea ufficiale.
Quando ho chiesto il permesso di visitare la prigione di Drapchi, dove sono rinchiuse almeno 202 persone coinvolte nelle manifestazioni di marzo, mi è stato opposto un rifiuto.
Solo la notte, quando siamo riusciti a lasciare il nostro albergo e a trovare qualche tibetano che parlava l’inglese, abbiamo potuto ascoltare qualche voce dissonante. Tuttavia, anche questi tibetani erano restii a parlare, temendo di essere visti o ascoltati dalle autorità. Un monaco ci ha detto che a Lhasa, nelle ultime settimane, circolavano “molti più cinesi e molti più soldati” ma nessuno aveva il coraggio di parlare per timore di essere denunciato alla polizia. “Le spie ascoltano tutto quello che dici,…a volte la piazza del Barkhor è piena di spie che ascoltano”.
Il monaco dichiara che i tibetani “sono molto scontenti” della situazione ma non hanno la possibilità di cambiarla. Un altro religioso ci dice che i cinesi hanno installato nelle maggiori località turistiche strumenti in grado di intercettare le conversazioni tra gli occidentali e i tibetani, così che nessuno si sente al sicuro se parla della situazione politica del Tibet con uno straniero.
Per monitorare le attività dei tibetani, i cinesi hanno adottato misure eccezionali, installando telecamere sugli edifici e sguinzagliando per la città, oltre agli agenti e ai soldati in uniforme, poliziotti in abiti civili.
La frustrazione dei cinesi è palpabile. Non riescono a capire per quale ragione anni di crescita economica non sono bastati a placare la richiesta di maggiore autonomia o d’indipendenza dei tibetani. Non comprendono né accettano che i tibetani possano avere altre priorità. Negli incontri di questa settimana hanno sfoderato le loro statistiche a riprova di consistenti miglioramenti per quanto riguarda la salute, le abitazioni, il benessere e le aspettative di vita dei tibetani. Il governo cinese ha profuso miliardi di dollari nell’economia tibetana, con sussidi di stato per un ammontare del 75% del prodotto interno lordo.
I risultati sono visibili sia a Lhasa sia nei suoi dintorni: nuove, ampie strade, magazzini di abbigliamento alla moda e negozi che reclamizzano televisori a megaschermo. Si può osservare la presenza di una rampante classe media locale, con abiti all’ultimo grido e i telefonini all’orecchio, alla guida di automobili di nuova serie. Il problema è che questa classe media è composta quasi esclusivamente da immigrati cinesi Han e non da tibetani, ancora principalmente dediti alla pastorizia e all’agricoltura e privi di un livello d’istruzione tale da garantire loro le specializzazioni necessarie per cogliere le opportunità di lavoro create dagli investimenti cinesi.
Di conseguenza, la frustrazione dei tibetani non è soltanto causata dalla perdita della cultura e delle tradizioni. È anche una questione di sviluppo economico, simile a quanto avviene in tante parti del mondo, là dove una popolazione indigena è emarginata a beneficio di un gruppo di privilegiati immigrati.
Le sollevazioni popolari di marzo, che hanno inferto un duro colpo al turismo, non sono certo state di giovamento alle condizioni economiche dei tibetani: negozi e bar sono vuoti, rari i turisti stranieri. Secondo Wang De Wen, esponente del Congresso del Popolo Tibetano, la colpa di questa crisi è imputabile agli stessi tibetani che, in gran numero, hanno aderito alle manifestazioni. Wang asserisce che “le rivolte sono state organizzate dal Dalai Lama e dai suoi seguaci che, incuranti del grande balzo in avanti compiuto dal Tibet, hanno istigato la popolazione a compiere atti di violenza lasciandosi andare a devastazioni, saccheggi e incendi dei negozi”. “Questi vandalismi hanno inferto un duro colpo alla situazione economica e alla vita dei tibetani e sono costati alla comunità ben 320 milioni di yuan”.
Il vice segretario generale del Congresso del Popolo Tibetano ha parlato con riluttanza degli arresti effettuati dopo la sollevazione affermando tuttavia che la maggior parte dei tibetani coinvolti ora si pente del proprio comportamento. “Al termine del nostro programma di rieducazione si pentiranno di quello che hanno fatto”, dice Tonga. Incalzato sull’argomento, aggiunge: “Un funzionario governativo di alto grado ha spiegato loro cosa è giusto e cosa è sbagliato”.
Tutti i dirigenti con i quali ho parlato hanno negato che ai tibetani sia stata imposta qualsiasi forma di limitazione della libertà religiosa. Il responsabile dell’ufficio per gli affari religiosi, Kalsang, ha definito senza fondamento l’opinione diffusa tra gli occidentali secondo cui ai monaci, durante le sessioni di “rieducazione patriottica”, è chiesto di denunciare il Dalai Lama. La sua affermazione è stata in parte contraddetta, alcuni giorni più tardi, da Wang Jinjun il quale ha ammesso che i religiosi sono stati costretti a seguire speciali “programmi di informazione”. In quest’occasione è stato loro detto di non mischiare la religione con la politica.
Durante gli incontri con i responsabili cinesi sono stato particolarmente colpito dalla portata dell’ostilità nei confronti del Dalai Lama che, assieme al governo tibetano in esilio, è ritenuto responsabile di aver fomentato la ribellione e di aver reso popolare la causa tibetana nel mondo occidentale. I cinesi rigettano le reiterate richieste di maggiore autonomia per il Tibet formulate dal Dalai Lama. Quando ho chiesto se la concessione di una maggiore autonomia al paese avrebbe in qualche modo alleviato i problemi della Cina in Tibet, Wang Jinjun ha categoricamente respinto questa possibilità affermando che qualsiasi cambiamento avrebbe riportato il Tibet all’originario status di società feudale. “Il Tibet non tornerà a essere un paese arretrato governato da un regime teocratico”, ha affermato.
La dimensione umana di questo difficilissimo problema si può cogliere camminando per le vie di Lhasa. L’ultimo giorno della mia permanenza in città ho visto un gruppo di donne tibetane, i bambini legati sulla schiena, chiacchierare e ridere sotto lo sguardo attento di un cecchino piazzato sopra di loro, sulla cima di un tetto.
Le immagini del pattugliamento delle strade di Lhasa al sito:
http://media.theaustralian.com.au/multimedia/2008/11/07-tibet/ss/index.html
Traduzione di Vicky Sevegnani