di Piero Verni
(da Il Manifesto, Domenica 16 Novembre 2008)
“I nostri contatti non hanno portato ad alcun progresso e la colpa ricade interamente sui rappresentanti del Dalai Lama”, afferma un comunicato del Partito Comunista Cinese del 10 novembre. Dopo che negli ultimi giorni lo stesso Dalai Lama aveva in più occasioni espresso la sua amarezza per la assoluta mancanza di risultati nei rapporti con Pechino, sembrerebbe che la lunga e controversa stagione del dialogo tra il leader tibetano e le autorità cinesi sia giunta al capolinea.
Ai primi di novembre, una delegazione del Dalai Lama era stata in Cina per l’ottavo giro di colloqui con esponenti del governo cinese ma evidentemente le posizioni delle due parti sono troppo distanti. Nonostante il Dalai Lama ripeta ormai da anni che non vuole l’indipendenza del Tibet ma solo una “genuina autonomia” per la regione, Pechino continua a ribadire che invece mira ad una sorta di indipendenza mascherata. Zhu Weiqun, vice ministro del dipartimento governativo incaricato dei colloqui, è stato molto esplicito al riguardo, “La porta per l’indipendenza o la semi indipendenza del Tibet è chiusa oggi e lo rimarrà per sempre”, ha dichiarato dopo la fine dei colloqui.
La situazione quindi appare molto difficile per il Dalai Lama che da ormai venti anni ha puntato tutto sul raggiungimento di un accordo con Pechino “accettabile da ambo le parti”. Sembra infatti che a nulla siano servite le sue numerose aperture per le quali è stato a volte criticato dalle frange più radicali della sua stessa gente.
E adesso che fare? Per il governo cinese la situazione che si è venuta a creare non è poi tanto negativa. Ha potuto mostrare al mondo la sua disponibilità al colloquio, ha incassato le aperture di credito del Dalai Lama e ha superato lo scoglio olimpico tutto sommato senza perdere troppo la faccia nonostante le proteste dei tibetani e dei militanti delle organizzazioni per i diritti civili. Molti indizi portano a credere che nei palazzi di Zhongnanhai ci si prepari ad aspettare la morte del Dalai Lama pensando che con essa si risolverà anche il problema del Tibet.
Sul versante tibetano invece la situazione è molto più difficile. Il Dalai Lama e il suo governo in esilio, forse pensando che fosse l’unico modo per far accettare una scelta così moderata, avevano puntato tutto sulla carta del dialogo e del compromesso, dicendo chiaramente che qualsiasi altra ipotesi era irrealistica e non praticabile. Questo concetto negli ultimi anni è stato ripetuto ossessivamente come un mantra sia dal Dalai Lama sia dai suoi ministri. Tutti coloro che si dichiaravano in disaccordo con la politica della Via di Mezzo sono stati emarginati e le loro posizioni considerate fuori dalla realtà. E a volte perfino accusati di essere “nemici del Dalai Lama” dal momento che non ne condividevano le scelte politiche.
Poi, nella scorsa primavera, era arrivata la “Marcia Verso il Tibet” di un nutrito gruppo di profughi, l’insurrezione di Lhasa e di altre aree tibetane, e una fortissima mobilitazione degli esuli in sostegno della lotta dei tibetani in Tibet e contro i Giochi Olimpici. Indirettamente si trattava di una sorta di sconfessione, o quantomeno di presa di distanza, dalla politica del dialogo. Nelle vie e nelle piazze di Lhasa i dimostranti chiedevano senza mezzi termini la fine dell’occupazione cinese e il ritorno del Dalai Lama come capo di una nazione indipendente. Così come in India, in Nepal e in molti altri luoghi i rifugiati contestavano apertamente il ruolo di Pechino sul Tetto del Mondo.
Una situazione che, unita alla consapevolezza della feroce repressione cinese, ha scosso il Dalai Lama che non ha potuto non prendere atto della crescente disperazione e frustrazione del suo popolo. Prevedendo probabilmente che anche l’ottavo round di colloqui non sarebbe andato a buon fine, il 29 settembre il Dalai Lama ha approvato la proposta, presentatagli dal Parlamento Tibetano in esilio, di tenere tra il 17 e il 22 novembre 2008, a Dharamsala, una grande assemblea per fare il punto della situazione. A questo incontro parteciperanno parlamentari, ministri, ex ministri e altre figure chiave dell’amministrazione tibetana in esilio. Oltre agli inviati del Dalai Lama a Pechino ed esponenti delle organizzazioni non governative dell’esilio. Si tratterà probabilmente della più importante occasione di dibattito della comunità degli esiliati. Il clima è di grande effervescenza e attesa. Non si esclude nemmeno un drammatico cambiamento di linea politica.
Difficile poter prevedere oggi cosa accadrà ma certo dalla società civile tibetana vengono segnali sempre più forti di una delusione profonda. Anche molti di coloro che fino a ieri approvavano la Via di Mezzo, oggi cominciano a chiedersi se non sia il caso di abbandonare l’idea di poter trovare un compromesso con Pechino. E le amare considerazioni dello stesso Dalai Lama, “La mia fiducia nella volontà di dialogo del governo cinese si assottiglia ogni giorno di più”, non aiutano a mantenere la speranza.
Nei prossimi giorni vedremo quale piega prenderanno gli avvenimenti ma una cosa è certa fin d’ora. Chiudendo così drasticamente la porta in faccia al Dalai Lama e alla sua moderata proposta, la Cina rischia di sprecare un’occasione preziosa per risolvere pacificamente e una volta per tutte il problema tibetano. E la storia ci insegna che non è mai buona cosa perdere questo genere di opportunità. Potrebbero non ripetersi.
Piero Verni