Tibet, un’assemblea per decidere il futuro

di Fabio Cavalera

(Corriere della Sera, 17 Novembre 2008)

“Da quando siamo in esilio abbiamo esercitato le funzioni di un sistema democratico invitando il nostro popolo a esprimere le proprie opinioni su importanti decisioni politiche riguardo il futuro del Tibet. Nel 1993, dopo la rottura dei contatti con la Repubblica Popolare cinese, conducemmo dei sondaggi tra i tibetani in esilio e raccogliemmo dei suggerimenti in Tibet. Sulla base dei risultati raccolti, il nostro Parlamento in esilio approvò una risoluzione che mi conferiva il potere di continuare ad occuparmi discrezionalmente di questo tema senza la necessità di ricorrere a un referendum.
Di conseguenza, abbiamo adottato la linea politica della “Via di mezzo” e otto sono state le tornate di colloqui tenute da quando sono stati ristabiliti i contatti con la Repubblica Popolare nel 2002. Ma nonostante questa linea politica sia stata largamente apprezzata dalla comunità internazionale e conti sul sostegno di molti intellettuali cinesi, in Tibet non si sono registrati segni positivi o cambiamenti…”.
Questo è uno dei passaggi della lettera che il Dalai Lama ha inviato al suo popolo in occasione dell’assemblea dei tibetani in esilio che si apre oggi a Dharamsala, in India. Un appuntamento importante perché dovrà decidere “le strategie del futuro”. Scrive il Dalai Lama: “Considerando il coraggio ispiratore dimostrato dai tibetani in tutto il Tibet nel corso di quest’anno, la situazione che il mondo sta vivendo e l’attuale atteggiamento di intransigenza del governo della Repubblica Popolare, tutti i partecipanti dovrebbero confrontarsi in uno spirito di uguaglianza, di cooperazione e di responsabilità collettiva su quale sia il miglior corso di azione per fare progredire la causa tibetana…”. In altre parole: la “Via di mezzo” è fallita? E se lo è, qual è il nuovo progetto tattico- strategico del premio Nobel della pace?
Negli ultimi mesi, dopo i fatti di marzo e i colloqui fra le delegazioni del Dalai Lama e del governo di Pechino, pareva possibile aprire un percorso pacifico per la soluzione della questione. Sia le parole del padre spirituale dei buddisti tibetani (no all’indipendenza) sia quelle di Hu Jintao e Wen Jiabao (discutiamo a patto che vengano ripudiate le posizioni secessioniste e riconosciuta l’integrità e unità della Cina) avevano avvalorato le speranze non tanto di un’intesa in tempi stretti quanto l’ipotesi di una seria riflessione comune, premessa di importanti passi successivi.
Che cosa è accaduto? A guardare bene la realtà si è trattato di un dialogo fra sordi. Pechino ha respinto in blocco la politica della “Via di Mezzo”, ritenendola una semplice copertura delle vere intenzioni del Dalai Lama. Non sono state sufficienti le sue ripetute dichiarazioni contro l’uso della violenza e a favore dell’autonomia (non della indipendenza) per rimuovere l’intransigenza del regime. Pechino non ha compiuto un solo passo in avanti. La paura, il sospetto, l’intolleranza hanno avuto la meglio su chi, più cautamente, anche all’interno della nomenklatura stessa premeva per una cauta attesa.
Ciò ha ridato fiato alle componenti più estreme della resistenza tibetana e indebolito la “Via di Mezzo”. Il risultato è che i colloqui sono stati sospesi e che tutto rischia di tornare in alto mare. Qualche giorno fa Zhu Weiqun, vice ministro del Dipartimentoi el Fronte Unito ha detto: “La questione della sovranità è fondamentale. Se il Dalai Lama respinge la sovranità della Cina sul Tibet, allora questa è nei fatti la ricerca di una base legale per la cosiddetta indipendenza tibetana, o semi-indipendenza o indipendenza nascosta”. Ma è davvero tale la posizione del Dalai Lama?
Poco prima delle Olimpiadi il leader tibetano aveva chiarito che la sovranità cinese non era per niente in discussione, lo era semmai il diritto della minoranza etnica a vedere riconosciute le sue specificità culturali e religiose. E aveva chiesto di porre fine alla repressiva “campagna di rieducazione” avviata nei monasteri di Lahsa e delle contee dove era scoppiata la rivolta di marzo. Più fonti indicano oggi che nulla è cambiato. Insomma, siamo di nuovo al punto di partenza.
L’assemblea di Dharamsala è interessante e forse risolutiva per capire se il popolo tibetano in esilio ha intenzione di proseguire lungo la strada indicata dal Dalia Lama o se invece sono pronte altre opzioni. L’atteggiamento di Pechino, di certo, non prelude a svolte positive. Il regime ha una sua strategia: è quella di prendere tempo e di aspettare che la leadership del Dalai Lama si esaurisca naturalmente per poi imporre la sua legge. Ma è davvero la scelta più giusta? A Pechino per ora vince il cinismo. Il Tibet può esplodere e dare così al governo della Repubblica Popolare il pretesto di intervenire coi suoi metodi.