Un “libro bianco” cinese di trenta pagine, rilasciato lo scorso 25 maggio 2004 dall’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato, difende la politica di Pechino sulla regione tibetana e rifiuta le proposte di autonomia avanzate dal Dalai Lama. Con argomentazioni assolutamente false e faziose, il documento afferma, tra l’altro, che “il governo centrale ha sempre esercitato un’effettiva sovranità sulla regione (il Tibet, N.d.T.). Pertanto, la questione di riappropriarsi della sovranità non esiste, né esiste la possibilità di un diverso sistema sociale (su modello di Hong Kong e Macao, N.d.T.) ”. Il “libro bianco” afferma inoltre che “qualsiasi atto volto a modificare l’Autonomia Etnica Regionale attualmente in vigore in Tibet, è una violazione della costituzione e della legge ed è pertanto inaccettabile all’intero popolo cinese, comprese le masse del popolo tibetano”.
Il governo di Dharamsala non ha ufficialmente replicato a queste proterve affermazioni, preferendo chiudersi in un prudente silenzio, dettato, forse, dal desiderio di non compromettere la visita in Cina della terza delegazione tibetana. Il durissimo documento cinese ha comunque raggelato le speranze di molti ed ha reso palpabile, tra i profughi e tra gli stessi gruppi di sostegno al Tibet, il senso di frustrazione. Proprio un tibetano, Geshe Jampel Senge, ha voluto scrivere per Tibet News – Italia questo commento al “libro bianco” che siamo onorati di proporre ai nostri lettori.
Geshe Jampel Senge è nato nel Tibet sud occidentale nel 1951. A seguito dell’occupazione cinese, fuggì con i suoi genitori in Nepal e quindi in India. Entrato nella Tibetan Homes Foundation di Mussoorie (nello stato indiano dell’Uttar Pradesh), completò gli studi, nel 1971, presso la Cambrian Hall di Dehradun. Tornò quindi in Nepal dove insegnò alla scuola tibetana di Swayambunath. Nel 1973 iniziò a frequentare l’Università monastica di Sera, nell’India del sud, dove ricevette l’ordinazione di Gelong dallo stesso Dalai Lama. Nel 1992 conseguì l’attestato di Geshe Larampa. Dopo aver studiato i Tantra presso il Collegio Tantrico di Gyumo, nel 1996 fu invitato a Perth, in Australia, per insegnare il buddismo tibetano.
In Australia fondò il Centro di Buddismo Tibetano Tashi Choeling di cui è direttore spirituale. Ha tenuto inoltre corsi di filosofia buddista presso l’Università della Western Australia. Su richiesta di S.S. il Dalai Lama, dal giugno 2004 è entrato nel monastero di Rikon, in Svizzera, come assistente dell’Abate.
Attivista politico da quando era studente, Geshe Jampel Senge continua ad essere un tenace sostenitore della causa tibetana che promuove dalle pagine di “Voice of Tibet”, il periodico da lui fondato nel 1987.
La recente pubblicazione da parte del governo comunista cinese del cosiddetto “libro bianco” è un totale falso, una montagna di bugie raccontate per ingannare la comunità internazionale.
Le asserzioni di Pechino, secondo la quale il Tibet è stato parte integrante del territorio cinese dal XIII° secolo, sono senza fondamento poiché, a quel tempo, la stessa Cina era sotto l’occupazione mongola. Il paese era retto, infatti, dall’imperatore Kublai Khan, un discendente di Gengis Khan che aveva invaso non solo la Cina e il Tibet ma anche molti altri paesi europei e asiatici. Kublai Khan si convertì al buddismo e invitò alla sua corte i lama tibetani come suoi tutori spirituali.
Dopo la morte del grande “pandit” Sakya, suo nipote, Drogon Choegyal Phagpa divenne il tutore di Kublai Khan. In segno di riconoscenza verso il maestro, che gli aveva concesso un’iniziazione tantrica, il sovrano mongolo gli offrì il governo del Tibet. Da quel momento, i lama Sakya governarono il paese per quasi un secolo. Il Tibet ottenne quindi l’indipendenza dai mongoli prima della stessa Cina. E’ pertanto evidente che, all’epoca, i cinesi non solo non controllavano il Tibet, ma nemmeno il loro stesso paese.
Secondo la logica di Pechino, l’India potrebbe avanzare pretese sulla Birmania e sul Pakistan perché entrambe le nazioni furono governate per quasi trecento anni dal viceré inglese. Siamo quindi di fronte ad un mito astutamente inventato dai cinesi per legittimare le loro mire sul Tibet indipendente. Esiste un detto secondo il quale una bugia, se ripetuta in continuazione, finisce per acquistare una certa attendibilità. E’ quello che la Cina ha fatto nel corso della storia. Sul Tibet, ha raccontato una serie di bugie senza fondamento. Dal canto loro, i tibetani non avevano i mezzi né si preoccuparono mai di smentire quanto i cinesi andavano favoleggiando.
I cinesi guardavano al Tibet come ad un tesoro caduto dal cielo, tant’è che, di proposito, lo chiamarono “Xizang”, parola che significa ”casa del tesoro occidentale”. Il vasto territorio tibetano, un quarto dell’intera superficie dell’attuale Cina, era il luogo ideale per trasferire la popolazione in continua crescita. Inoltre, nel corso della sua storia, la Cina aveva sempre mirato allo sfruttamento delle ricche risorse naturali tibetane.
I cinesi dapprima si impossessarono dell’Amdo, regione che oggi è chiamata Qinghai. Poi, gradualmente, grazie alle scorribande dei “signori della guerra”, tra i quali Chou Erfeng e le sue orde assassine, che sterminavano i tibetani e ne occupavano la terra, portarono a termine l’annessione del Kham.
In tempi recenti, la Cina ha avanzato rivendicazioni anche nei confronti di uno degli stati a lei più vicini, la Corea. Fondato nell’anno 37, nella regione compresa tra l’attuale Corea del nord e la Manciuria meridionale, il Koguryo, regno abitato da tribù di cacciatori, è considerato dai coreani il periodo aureo della loro storia. E’ universalmente riconosciuto come appartenente alla civiltà coreana. Ha dato i natali ad eminenti studiosi e santi buddisti. Il suo fondatore, il re Chumong, era un grande arciere e un abile cavallerizzo. I coreani considerano il regno di Kogyuro il precursore della loro nazione, una grande civiltà che ha trasmesso il suo nome alla moderna Corea. Ma, ancora una volta, i cinesi fanno il loro gioco e, con artifici e mire imperialistiche, cercano di impossessarsi della terra altrui. L’agenzia cinese Xinhua ha definito il regno “uno stato subordinato, caduto sotto la giurisdizione delle dinastie cinesi che ne hanno profondamente segnato le caratteristiche sia politiche sia culturali”. Gli organi d’informazione statale definiscono il Kogyuro “parte della Cina”. Il governo di Pechino ha perfino rimosso dal suo sito web ufficiale qualsiasi riferimento alla storia antica della Corea!
Che cosa vogliono quindi gli scaltri cinesi? Secondo Kim Woo Jun, professore di storia all’Università Yonsei, di Seul, “fondamentalmente la Cina desidera avere il totale controllo di aree abitate da popolazioni d’etnia coreana”. Il parlamentare sud coreano Kim Sung Ho ha affermato che “Pechino vuole porre le premesse per vantare diritti sulla parte della Corea del nord situata al confine con la Cina”.
La Cina avanza pretese anche sulle isole Sprately (nel Mar Cinese Meridionale, N.d.T.), cosa che ha irritato non poco le nazioni del sud – est asiatico, ed ha aperto un contenzioso anche con il Vietnam e le Filippine. Questo è il suo tipico modo di fare: vantare diritti su territori appartenenti ad altri popoli e poi annetterli ogniqualvolta lo ritenga conveniente. Anche il Tibet è vittima di queste diaboliche macchinazioni, insite nella mentalità imperialistica cinese.
E’ evidente che le continue rivendicazioni cinesi sono state incoraggiate dal disinteresse della comunità internazionale attorno al problema dell’occupazione e della dominazione del Tibet. Pechino ha dichiarato la propria giurisdizione sul Tibet anche se, prima del 1949, il paese non è mai stato governato dalla Cina, neppure per un solo giorno. Il solo fatto che, per legittimare il suo ingresso in Tibet, il cosiddetto Esercito di Liberazione abbia dovuto stipulare un accordo con il governo di Lhasa, costituisce la prova che i tibetani avevano il pieno controllo del paese.
Tutto il mondo sa che il cosiddetto Accordo in 17 Punti (firmato il 23 maggio 1951, N.d.T.) fu imposto ai tibetani dalla Cina comunista le cui armate si apprestavano ad invadere il Tibet centrale, al di là del fiume Drichu, dopo che il Kham e l’Amdo erano caduti e i loro leader eliminati, uno dopo l’altro, con l’intrigo e l’inganno. Se i cinesi avessero potuto vantare dei diritti sul Tibet, perché avrebbero dovuto attaccarlo e invaderlo? Avrebbero potuto semplicemente entrare nel paese, così come fanno quando si recano a Shanghai o in qualsiasi altra parte del territorio cinese.
Ma il Tibet era una nazione indipendente e l’occupazione avrebbe nuociuto alle relazioni pubbliche del nascente regime comunista, già isolato. Così preferirono non correre il rischio di un ulteriore isolamento politico derivante dalla condanna della comunità internazionale.
All’inizio i cinesi si mossero con cautela. Arrivarono persino ad assicurare l’allora primo ministro indiano Jawaharlal Nehru che non avrebbero imposto il comunismo ai tibetani e che, se necessario, avrebbero aspettato altri cinquant’anni. Il premier Chu En Lai si fece gioco del primo ministro indiano facendogli credere che la Cina si sarebbe comportata in modo ragionevole. Ben presto, tuttavia, Pechino istaurò in Tibet un regime di terrore senza precedenti nella storia dell’umanità. Il silenzio della comunità internazionale e soprattutto dell’India, molto accondiscendente circa l’invasione, consentì ai cinesi di compiere inimmaginabili atrocità.
Quei mesi e anni cruciali furono segnati dal succedersi dei seguenti eventi. In un primo momento l’India, elevò dure proteste per le brutali azioni compiute dalla Cina nel Tibet orientale ed espresse in modo chiaro il proprio rammarico per il comportamento cinese. Pechino aveva però i propri assi nella manica e, astutamente, redasse il “Piano in Cinque Punti di Pacifica Coesistenza con l’India”, il “Panchseel” (29 aprile 1954, N.d.T.).
Fino a quel momento gli indiani erano convinti di poter conservare tutti i privilegi ereditati dagli inglesi, che non avevano mai riconosciuto la sovranità cinese sul Tibet. Al pari della Gran Bretagna, anche l’India continuò a considerare il Tibet uno stato cuscinetto tra il proprio territorio e quello cinese e assicurò formalmente il governo di Lhasa che tutti i trattati stipulati durante il periodo britannico sarebbero stati rispettati. Nel 1949, inviò persino a Lhasa un ufficiale dell’esercito in qualità di consulente e, nel 1947, invitò una delegazione tibetana alla storica Conferenza sulle Relazioni Asiatiche organizzata a Calcutta.
Ma i cinesi erano, come al solito, molto agguerriti e l’India aveva appena ottenuto l’indipendenza dalla dominazione coloniale inglese. Non era perciò ancora sufficientemente forte per sostenere la difesa della nazione tibetana, anche se avrebbe facilmente potuto mobilitare l’opinione pubblica internazionale contro l’incombente invasone cinese e adoperarsi a favore del suo vicino che, dalla nazione indiana, aveva ereditato la cultura buddista. Sfortunatamente, gli stretti rapporti tra la nazione indiana e quella cinese, sanciti dal Panchsheel, il Piano in Cinque Punti, giocarono a sfavore dei tibetani e dei loro interessi.
I negoziati tra l’India e la Cina ebbero luogo tra il dicembre 1953 e l’aprile 1954. Il premier cinese Chu En Lai annunciò formalmente l’idea del “Panchsheel” fin dal primo incontro con la delegazione indiana, nel dicembre 1953. I cinque principi in essa contenuti garantivano, nell’ordine, il mutuo rispetto della sovranità e integrità territoriale, la reciproca non aggressione, la non interferenza negli affari interni di ognuno dei due stati, uguaglianza e comuni vantaggi e, infine, pacifica convivenza. Con un colpo da maestro, i cinesi convinsero gli indiani a rinunciare alla loro posizione sul Tibet e ad abbandonare il paese al dominio della Cina comunista. L’India vendette il Tibet alla Cina per comperarsi la pace. Diede credito alla retorica comunista e firmò il “Trattato in Cinque Punti per la Coesistenza Pacifica e l’Accordo tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica Indiana sul Commercio e sui Rapporti tra la Regione Tibetana Cinese e l’India”.
Questi accordi furono la campana a morto del Tibet. Da allora i tibetani sono stati depredati della loro terra, oppressi e soggiogati dai colonialisti cinesi. E’ il colmo dell’ironia che un paese come l’India, che a lungo ha sofferto la dominazione coloniale europea, possa avere permesso e persino tacitamente approvato l’annichilimento di un popolo che per secoli aveva considerato il subcontinente indiano la propria guida e l’ispiratore della propria saggezza e ne aveva abbracciato la cultura non violenta.
Come ha potuto l’India essere così insensibile da sacrificare il Tibet a un regime tanto barbaro, che ha fama d’aver assassinato un numero di suoi cittadini superiore a quello delle vittime di Hitler e di Stalin? Anche oggi, in Cina e nei territori conquistati, come il Tibet, il numero delle condanne a morte è superiore al totale delle sentenze capitali eseguite in tutto il mondo.
Alcune democrazie occidentali chiesero alle Nazioni Unite di approvare una risoluzione sul Tibet. Purtroppo, la presentazione del documento fu bloccata proprio dall’India! Il governo di New Delhi assicurò infatti la comunità mondiale che si sarebbe adoperato presso Pechino per risolvere la questione senza l’intervento internazionale. In realtà, possiamo affermare con certezza che l’India, sospettosa dell’interesse dell’occidente per il Tibet, assecondava il gioco della Cina, restando sempre al fianco del regime comunista cinese e, di fatto, favorendone l’ingresso alle Nazioni Unite a scapito di Taiwan. New Delhi guardava alla nuova Cina emergente come al partner a fianco del quale contrastare l’imperialismo occidentale in Asia. E poiché l’India, il paese maggiormente interessato in termini di strategie geopolitiche, sembrava non essere minimamente preoccupata né della propria sicurezza né della sorte del popolo tibetano, il resto del mondo decise allora di ignorare il problema.
Molti uomini politici indiani di massimo rispetto espressero a gran voce il proprio disgusto per il modo in cui i diritti del popolo tibetano erano stati svenduti per compiacere la Cina comunista. Persone come Jaya Prakash Narayan definirono il Panchsheel “un trattato nato dal peccato”, perché calpestava i diritti del popolo tibetano sotto gli stivali dei conquistatori cinesi.
A questo “peccato” seguì un momento di grande euforia ed ebbe inizio il famoso periodo dell’“India – Chini Bhai Bhai”. Ma la luna di miele fu breve. Dopo aver ingannato gli indiani e ottenuto ciò che desideravano in Tibet, i cinesi mostrarono il loro vero volto e invasero l’India lungo la “Regione di Frontiera Nord Orientale” (NEFA), com’era allora chiamata. Nel 1962, il primo ministro indiano Pandit Jawaharlal Nehru conobbe l’amara realtà della Cina comunista. L’India imparò che molto difficilmente il leopardo cambia pelle.
Ciononostante, vuoi per scelta politica o per pura irresponsabilità, i governi che, nel corso degli anni, si sono succeduti in India hanno sempre legittimato la conquista cinese del Tibet definendolo costantemente “parte della Cina” e segnando così il suo destino, quasi fosse sacro dovere di New Delhi porre il proprio sigillo sulla sorte del paese e del suo sfortunato popolo. L’ultimo a compiere questo gesto è stato Atal Bihari Vajpayee, il Primo Ministro del BJP, che, solo qualche mese fa, ha nuovamente dichiarato che “il Tibet è parte della Repubblica Popolare Cinese”. Nessuna meraviglia se i cinesi sono tutti sorrisi e se, secondo recenti notizie, alcuni militari dell’Esercito di Liberazione hanno persino preso parte alle celebrazioni per l’indipendenza indiana, lo scorso 15 agosto 2004! Sanno benissimo quanto gli indiani possano rivelarsi utili.
Se però l’India chiedesse il supporto della Cina per ottenere un seggio permanente all’ONU, i cinesi rifiuterebbero di appoggiarla, nonostante il ruolo di primo piano svolto da New Delhi, nel 1969, nell’assicurare ai comunisti la rappresentanza alle Nazioni Unite. Riusciranno gli indiani ad essere ricambiati? A voi il giudizio.
In questa tragica saga, vedo un unico termine di paragone: quello con il comportamento dell’Australia, il paese che mi ospita, nei confronti di Timor Est, nel 1974. Nonostante, nel corso della seconda guerra mondiale, la popolazione di Timor Est abbia aiutato l’Australia e salvato la vita di molti suoi soldati, a rischio della propria, il continente ha venduto l’isola al brutale regime di Suharto in cambio del 50% del petrolio estratto dal mare di Timor. Grazie all’indomita lotta di persone come Xanana Gusmal e Jose Ramos Hotas, Timor Est è riuscita ad affrancarsi dal giogo brutale della dittatura di Suharto. Firmando il Panchsheel con Pechino, l’India ha fatto la stessa cosa e si è comperata la pace.
I comunisti cinesi hanno indotto l’opinione pubblica a credere che il Tibet fosse parte della Cina riferendosi costantemente ad esso con le parole “governo locale del Tibet”, come se possedessero una legittima sovranità sul paese. I tibetani ebbero difficoltà a capire il significato di questa espressione, chiamata “sa-ne sishung”, nella lingua del luogo, un termine a loro del tutto alieno. I cinesi non conoscevano il tibetano, tant’è che istruirono alcuni giovani al mestiere di traduttori. Se la Cina avesse avuto giurisdizione sul Tibet, come mai, quando arrivarono, il paese era loro completamente estraneo e i funzionari di Pechino giravano sempre armati perché temevano i tibetani?
Per invadere il Tibet, Pechino aveva bisogno di un pretesto e quindi creò, su misura, un gruppo fantasma battezzato “gli imperialisti stranieri”. Bugiardamente affermarono di essere entrati in Tibet non per conquistarlo ma per salvare i tibetani da immaginari imperialisti, quando, in realtà, i veri imperialisti erano loro stessi. Proprio come le volpi in guardia al pollaio! Ma questa scusa non poteva reggere perché in Tibet vi erano solamente un paio di “presunti imperialisti”, naturalmente occidentali.
Allora cambiarono musica e asserirono di essere entrati nel paese “per liberare le masse tibetane e renderle padrone del proprio destino”. Ovviamente, il vero scopo dell’invasione, camuffato dietro il termine “liberazione”, tanto per usare il lessico dei cinesi, era di prendersi la nostra terra e la libertà di cui avevamo goduto per secoli. Questo è tipico di un certo modo d’agire che si ripete nella storia a partire dai tempi della Rivoluzione Bolscevica del 1917: invadere la terra altrui e definire l’aggressione col termine “liberazione”. E’ una pratica imbevuta di sangue, posta in atto dai più feroci assassini della storia dell’umanità. Oggi, quel che resta di questa specie governa il Tibet, con la stessa crudeltà usata da Stalin nell’allora Unione Sovietica.
Il Tibet, a quei tempi, era un paese chiuso, che non permetteva ad alcun straniero di varcare i suoi confini. Si trattava di una politica di volontario isolamento dal resto del mondo mirata a proteggere l’indipendenza del paese da qualsiasi influenza esterna. Il pretesto di “cacciare gli imperialisti” altro non è se non una colossale bugia. I tibetani pensavano che l’isolamento avrebbe garantito l’indipendenza, ma i cinesi usarono questa libera scelta a loro vantaggio, reclamando il Tibet così come ora fanno ora con la Corea.
Ai nostri giorni, anche la Corea del nord è molto isolata a causa della sua politica in campo nucleare e, forse, nessun paese alzerebbe un dito nel caso in cui la Cina si appropriasse di una parte del suo territorio. La terra che i cinesi reclamano nella penisola coreana è parte integrante della Corea del nord. Kim Sung Ho, un parlamentare sud coreano, ha così affermato: “Pechino si prepara a reclamare per sé quella parte della Corea del nord situata al confine con la Cina”. E’ esattamente quello che è successo in Tibet. A causa del suo isolamento, il Tibet non aveva nessuno cui chiedere aiuto e i cinesi se ne impadronirono senza che la comunità internazionale alzasse un dito per protestare. Anche oggi, nessun paese al mondo ha il coraggio di affrontare la Cina, di opporsi apertamente alle sue pretese sul Tibet e di denunciarne l’espansionismo e l’imperialismo. Le mire dei cinesi sulle isole Sprately, nel sud Pacifico, come quelle più recenti sulla penisola coreana, non devono meravigliarci perché questo è il loro gioco da secoli. Hanno rivendicato anche altri paesi, quali il Buthan e il Nepal. E’ giunto il momento di denunciare, una volta per tutte, l’imperialismo cinese e porre fine al suo espansionismo.
La civiltà tibetana e quella cinese sono completamente differenti e tale diversità fa del Tibet un paese a sé, cosa che per gli imperialisti cinesi è come un dito nell’occhio. La Cina non riesce ad accettare la peculiare identità e cultura del popolo tibetano proprio perché non è “cinese” e quindi, ai loro occhi di sciovinisti, di non sufficiente rilevanza. La fine dell’impero sovietico ha allarmato i leder comunisti che, nel 1980, hanno formulato la politica denominata “un solo popolo” per impedire che in Cina potesse riproporsi una situazione analoga. Questa formula costituisce il fondamento della politica di pulizia etnica attuata nei confronti dei tibetani.
La ferrovia che unisce il Qinghai al Tibet è l’ultimo atto di questa avventura. E’ la spada della pulizia etnica che colpisce sotto le sembianze dell’apertura di una diga al flusso dell’immigrazione cinese sommergendo i tibetani nell’oblio. E’ un’arma che distruggerà completamente un popolo antico e pacifico e la sua cultura non violenta. Ancora una volta il mondo assisterà in silenzio a questo genocidio, paragonabile a quello perpetrato dai turchi ottomani nei confronti degli armeni ottantanove anni fa. Così come gli ottomani uccisero o deportarono 1.500.000 armeni, allo stesso modo i cinesi hanno sterminato o fatto morire di stenti 1.200.000 tibetani. E continuano a ucciderli, imprigionarli e torturarli per il solo fatto che professano la loro cultura e religione. La Cina commette dei crimini contro l’umanità ma nessuno sembra preoccuparsene.
Per crearsi un alibi e invadere il Tibet, i cinesi demonizzarono lo stile di vita dei tibetani e la loro cultura, definendola arretrata e oscura, proprio come fecero i conquistatori coloniali europei per impossessarsi delle terre altrui. Non si diedero la pena di verificare se quest’affermazione fosse vera o falsa: la usarono semplicemente come pretesto per ingrandire i propri confini, inventando uno slogan propagandistico incredibilmente in uso anche ai nostri giorni a legittimazione dell’occupazione del Tibet. Crearono uno scenario in cui il razzismo fanatico contro i tibetani e la natura imperialistica della Cina ebbero un ruolo preponderante. I cinesi, infatti, proprio a causa della loro arroganza imperialistica, considerarono sempre “arretrate” le culture dei paesi confinanti. Nel caso del Tibet, la loro inveterata natura razzista è venuta compiutamente a galla ed è stata usata come strumento di propaganda contro la società, la religione e la cultura tibetane. Dipinsero i monaci e le monache come parassiti che succhiavano il sangue della gente comune e definirono i Tulku “ladri che privavano gli innocenti tibetani dei loro mezzi di sussistenza”. Puntualmente, il cosiddetto libro bianco cita la solita vecchia frase: “Il Tibet era una società feudale di servi retta da una teocrazia, una società più buia e arretrata di quelle dell’Europa medioevale”.
Per lisciare le penne arruffate dell’occidente, i cinesi descrissero il Tibet un paese buio ed arretrato, facendo sembrare la conquista del paese un’azione benevola compiuta per aiutare i tibetani. In realtà, con l’invasione cinese ebbe inizio l’era più oscura della nostra storia, vecchia di oltre tremila anni: i tibetani furono ridotti a cibarsi di carne umana e a cercare chicchi di grano non digeriti tra le feci dei coloni cinesi e dei soldati dell’Esercito di Liberazione. I bambini furono costretti ad assistere all’uccisione dei loro genitori, accusati, secondo la terminologia cinese, di essere “reazionari”. Allo scopo di umiliarli e ridicolizzare le loro credenze, considerate superstizioni, i monaci e le monache furono obbligati a unirsi sessualmente in pubblico. A seguito delle continue vessazioni, intere famiglie si tolsero la vitaono gettandosi nei fiumi o dalle cime dei tetti. I Lama furono uccisi a colpi di pistola, a sangue freddo e, in vero stile nazista, seppelliti in buche fatte loro scavare in precedenza. La lista delle atrocità premeditate non ha fine e gli atti di brutalità continuano anche ai nostri giorni, dopo più di mezzo secolo. Questa è la cosiddetta “liberazione” imposta ai tibetani i quali, nonostante le insidie del percorso e la costante paura d’essere catturati sia da poliziotti di frontiera cinesi sia da nepalesi di poco scrupolo che, per danaro, hanno venduto la loro anima a Pechino, ogni anno lasciano in gran numero la loro amata terra e fuggono nei paesi vicini, quali l’India.
Gli aspetti peggiori del comunismo, quelli che hanno minacciato il mondo civilizzato, si sono ovunque attenuati. Ma non in Tibet, dove i cinesi stanno cancellando un’antica civiltà non-violenta e un’intera razza desiderosa di vivere in pace e armonia con il resto del mondo. Con la loro follia e arroganza imperialista, gli invasori hanno di fatto distrutto i grandi e antichi monasteri, cuore della vita tibetana. Hanno demolito e saccheggiato i sacri templi che il nostro popolo aveva venerato per secoli. Hanno raso al suolo più di seimila tra monasteri e biblioteche che custodivano l’inestimabile eredità culturale e religiosa del paese. Quanti tentarono di opporsi a questo inutile saccheggio furono bollati come “reazionari” e assassinati, le loro teste appese ad alberi e pali per intimorire i compatrioti. I famigliari dell’ucciso furono costretti a danzare attorno ai cadaveri per “gioire dell’eliminazione dei reazionari”. Le conseguenze di questa politica furono devastanti: 1.200.000 tibetani, un sesto dell’intera popolazione, furono uccisi con metodi paragonabili a quelli usati dai nazisti nei confronti degli ebrei oppure semplicemente scomparvero, dopo che qualcuno, nel cuore della notte, aveva bussato alle loro porte, così come avveniva nella Russia stalinista. La popolazione del Tibet fu decimata e ridotta a procacciarsi il cibo come fanno le bestie, a nutrirsi d’erba, di lucertole, delle suole di vecchie scarpe di cuoio, a raccogliere e masticare ossa, alla maniera dei cani. Questo è il genere di racconti che spesso ascoltiamo dai tibetani fuggiti dal Tibet, inclusi coloro che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in prigione, in condizioni terribili, paragonabili a quelle esistenti nei gulag al tempo del Soviet comunista.
Oggi, i cinesi hanno decimato la flora e la fauna del Tibet. Hanno inquinato i fiumi e vergognosamente sfruttato il territorio, incuranti dell’ambiente. Hanno saccheggiato le risorse naturali del paese senza che i tibetani ne abbiano tratto alcun beneficio. Questa è la “liberazione” portata da Pechino. Stiamo vivendo il periodo peggiore di tutta la nostra storia e definire quanto è avvenuto “liberazione” è il peggiore insulto che si possa fare al popolo tibetano. Come reagirebbero i cinesi se l’occupazione giapponese della Manciuria fosse definita “la liberazione da una signoria feudale”, che trattava le persone come servi e schiavi e obbligava le donne a fasciarsi i piedi allo scopo di poterle sfruttare sessualmente per il resto dei loro giorni? Senz’altro la loro versione dei fatti sarebbe diversa. I comunisti cinesi devono comprendere che i tibetani hanno una percezione differente dell’occupazione del loro paese, proprio come differente è l’idea che essi hanno dell’intervento militare giapponese in Cina. I giapponesi, in realtà, sostennero di aver salvato la Cina dalla colonizzazione e dallo smembramento da parte dell’occidente. Ma come Pechino non condividerebbe mai la versione giapponese degli eventi degli anni ’40, allo stesso modo i tibetani non accetteranno mai il punto di vista cinese che definisce l’invasione del Tibet una “liberazione”. Per i tibetani si trattò invece di un olocausto. L’intera nazione tibetana fu sconvolta: tutto ciò che avevamo di più sacro fu sprezzantemente definito “superstizione” e i luoghi più santi furono rasi al suolo. All’epoca, secondo la loro terminologia, i cinesi parlarono di “progresso che scuote la terra”, ma per i tibetani fu solo un inferno.
La Cina è solita distorcere la storia e dipingere tutto di un solo colore. Con un’abile mossa coniò l’espressione “governo locale del Tibet”, come se avesse sempre avuto giurisdizione sul paese. Perfino Lord Curzon, il Viceré britannico che ordinò a Francis Young Husband di invadere il territorio tibetano, affermò senza mezzi termini che le rivendicazioni cinesi sul Tibet erano “fittizie” e nient’altro che “una simulazione politica”. Gli inglesi non riconobbero mai la “sovranità” (sovereignity) di Pechino sul Tibet. Accettarono invece il concetto di “influenza” (suzerainty), che conferiva legittimazione alle loro stesse mire sull’Irlanda del Nord. La Gran Bretagna desiderava infatti che l’Irlanda del Nord fosse considerata un’area speciale di “influenza” inglese sia per ragioni di sicurezza sia per proteggere gli interessi della popolazione Unionista protestante. Come gesto di reciprocità, gli inglesi ammisero che il Tibet potesse rientrare nella sfera di influenza della Cina.
Questa visione politica malata riempì di odio e violenza le isole britanniche. La stessa cosa accadrà in Tibet dove, fino a che vi sarà ingiustizia, regneranno risentimento e rancore. Anche se dipinto di un altro colore, un atto ingiusto rimane sempre tale.
Nel corso della storia, gli uomini si sono sempre ribellati all’ingiustizia. Anche il popolo tibetano ha il diritto di combatterla e di lottare contro l’occupazione e la distruzione della propria terra, cultura e credenze religiose. Impossessandosi, con la forza delle armi e con un falso pretesto, della terra dei nostri padri e definendo “separatisti” coloro che protestavano l’occupazione, i cinesi hanno perpetrato un grave atto di ingiustizia nei confronti dei tibetani. Il Tibet non è mai stato parte della Cina e la Cina non ha il diritto di invadere i territori altrui. Così come i cinesi non tollererebbero l’invasione da parte di una potenza straniera, allo stesso modo i tibetani non tollereranno l’occupazione del Tibet. Non importa quanto un paese sia potente: nessuno ha il diritto di sopraffare un altro popolo. I cinesi appartengono alla Cina, non al Tibet. Sanno di non essere tibetani così come noi sappiamo di non essere cinesi. Siamo due popoli completamente diversi, con differenti culture, usanze, abitudini e caratteri. Abbiamo una storia diversa e un diverso modo di affrontare la vita. I cinesi sono materialisti, noi siamo più orientati alla spiritualità. Per loro natura, i tibetani sono compassionevoli, i cinesi crudeli: nessun tibetano potrebbe mai immaginare di spaccare il cranio di una scimmia ancora viva e di mangiarne il cervello ancora caldo! E’ un’usanza prettamente cinese, ancora praticata su larga scala, che testimonia la diversa natura delle due popolazioni.
Continueremo la nostra battaglia, non importa quanto tempo ci vorrà, perché non abbiamo altra scelta. E’ in gioco il destino del nostro paese, della terra che abbiamo ereditato dai nostri coraggiosi antenati che, a loro volta, hanno lottato per difenderla: saremo dannati per sempre se non riusciremo a riconquistarla. Rimarremo fedeli alla non-violenza ma non lasceremo nulla d’intentato per liberarci dal giogo cinese. Dentro e fuori dal Tibet, cresce sempre più rapidamente, tra i giovani, il sentimento nazionalista e la sua forza finirà col costringere la Cina a cambiare atteggiamento: non potrà continuare per sempre ad opprimere i tibetani e la stessa comunità internazionale non lo consentirà. Nessuna dittatura vi è riuscita e la Cina non sarà certamente l’eccezione. La storia ci insegna che la volontà del popolo ha sempre prevalso. L’era moderna ha visto la caduta di Hitler, di Stalin, di Csauscescu in Romania, di Suharto in Indonesia, di Marcos nelle Filippine, di Saddham Hussain: tutti sono caduti al margine della strada e i loro busti da semidei sono finiti, a pezzi, nel bidone della spazzatura della storia. Fortunatamente, o sfortunatamente, questo è il destino di tutti i dittatori.
Geshe Jampel Senge