Pechino, in tre si danno fuoco vicino piazza Tienanmen

di Federico Rampini

PECHINO, 25 febbraio 2009 (www.repubblica.it). “Venivano da fuori, per presentare delle lamentele al governo, proteste individuali”. E’ questa la prima versione ufficiale fornita dalla polizia di Pechino dopo che si sono dati il fuoco, all’interno di un’automobile, in una zona centrale della capitale a poca distanza da Piazza Tienanmen. La polizia aggiunge che “due sono stati ricoverati, curati e dismessi”, mentre non dà notizie sul terzo uomo.

Le fonti ufficiali tacciono su ogni altro dettaglio. In particolare non c’è nessuna menzione dell’eventuale appartenenza dei tre a una minoranza etnica. In passato l’autoimmolazione è stata una forma di protesta adottata dai monaci buddisti in diversi paesi asiatici (si ricordano i bonzi vietnamiti durante la guerra in Indocina) ma anche da qualche seguace di Falun Gong, la setta religiosa messa al bando da diversi anni nella Repubblica Popolare.

Una terza ipotesi è che i tre venissero dallo Xingjian, la regione popolata dall’etnìa uigura di religione islamica. L’autoimmolazione non rientra nelle forme di protesta tradizionali della minoranza musulmana, ma in questo caso potrebbe trattarsi di un attentato fallito. Altre volte degli uiguri sono stati arrestati mentre viaggiavano con liquidi esplosivi, e qualche attentato fu attribuito ai secessionisti islamici l’anno scorso nei mesi precedenti le Olimpiadi.

L’accenno alle “proteste individuali” nel comunicato di polizia tende a sminuire la portata del gesto escludendo ogni significato politico. Pechino è effettivamente la mèta di migliaia di cinesi che dalle provincie affluiscono ogni giorno per presentare “petizioni” al governo. Si tratta di uno strumento antichissimo – risale all’èra imperiale – con cui le vittime di ingiustizie e soprusi si appellano all’autorità centrale. Tuttora è l’unica speranza per molti contadini poveri, vessati e depredati dalle nomenklature locali. Ma la decisione della polizia di catalogare il gesto disperato di quei tre come “protesta individuale” può anche essere un tentativo di occultare la verità.

Il sospetto che i tre possano essere tibetani è legato alla data: proprio oggi hanno inizio le festività del Capodanno buddista tibetano. Un periodo solitamente gioioso, che invece quest’anno si apre in un’atmosfera tetra. Da diverse settimane il governo cinese ha stretto ulteriormente la morsa repressiva che attanaglia il Tibet dal marzo scorso, dopo l’ondata di proteste che sconvolsero Lhasa e altre zone della regione.

I leader di Pechino sono preoccupati per l’accavallarsi di tre ricorrenze. Oltre al Capodanno buddista, un evento religioso molto sentito che rinsalda il sentimento di appartenenza e l’identità culturale dei tibetani, si avvicina anche il primo anniversario della ribellione di Lhasa. Infine, sempre a marzo, saranno passati 50 anni dalla fuga in esilio del Dalai Lama. E’ nel 1959 infatti che si spezzò la fragile tregua tra il regime di Mao Zedong e i dirigenti buddisti di Lhasa: nei primi dieci anni dopo l’invasione del Tibet da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione, i comunisti sembrarono voler rispettare una certa autonomia. Poi iniziò invece la proibizione del culto religioso; esplosero rivolte schiacciate nel sangue dalle forze armate cinesi, e l’allora giovane Dalai Lama dovette partire in esilio in India.

L’insieme di questi ricordi forma adesso una miscela esplosiva. Perciò Pechino ha preso misure di sicurezza eccezionali: oltre a rinforzare la presenza militare in Tibet, ha proibito l’accesso alla regione a tutti gli stranieri, inclusi i turisti. Si ritorna cioè allo stato d’assedio più pesante.

Non si può escludere per ora l’ipotesi che i tre uomini immolatisi questo pomeriggio a Pechino appartengano invece a Falun Gong. I seguaci di questo culto sono il bersaglio di una persecuzione sistematica: molti si trovano in campi di lavori forzati, costretti a subire anni di “rieducazione ideologica”. La loro sorte è meno popolare nel resto del mondo rispetto alla causa tibetana, per la fama equivoca che circonda la setta Falun Gong. Ma non c’è dubbio che anche nei confronti dei suoi fedeli i metodi usati dalle autorità cinesi calpestino i più elementari diritti umani.

25 febbraio 2009
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