(La Repubblica, 22 marzo 2009)PECHINO – Cento monaci buddisti arrestati, un assalto di massa contro una caserma di polizia, migliaia di soldati in stato di massima allerta: in Tibet riesplode la tensione, un anno dopo le rivolte contro l’occupazione cinese che furono schiacciate nel sangue. Nonostante la regione sia in stato di assedio, con un dispiegamento senza precedenti di forze armate, e vietata ad ogni osservatore straniero, ieri sono filtrate notizie di duri scontri. L’ultimo episodio è accaduto al monastero di Ragya, nella provincia del Qinghai: quindi fuori dal confine amministrativo attuale del Tibet. Il Qinghai come il Sichuan hanno “ricevuto” intere enclave tibetane quando il perimetro delle provincie fu ridisegnato per motivi politici, dopo l’invasione cinese del 1949. L’obiettivo era quello di rimpicciolire il Tibet le cui dimensioni originarie si avvicinavano a quelle dell’intera Europa occidentale. Tuttavia le comunità tibetane che vivono nelle provincie limitrofe hanno conservato la stessa ostilità verso il governo cinese, e sono rimaste a maggioranza fedeli al Dalai Lama, il leader politico-spirituale fuggito in esilio nel 1959. L’ultima protesta nel Qinghai segue di pochi giorni il lancio di una bomba contro una caserma di polizia.
Attorno al monastero di Ragya la scintilla della rivolta sembra essere stata il suicidio di un monaco 28enne, Tashi Sangpo, gettatosi nelle acque del fiume dopo essere che la polizia lo aveva interrogato e torturato. La sua colpa: aveva esposto la bandiera nazionale tibetana, un vessillo proibito dalla legge cinese perché è simbolo dell’indipendenza. Alla notizia del suicidio del religioso più di duemila persone sono scese in piazza a protestare contro le violenze poliziesche. I manifestanti, inclusi un centinaio di monaci, si sono diretti verso il commissariato di polizia di Ragya e l’hanno preso d’assalto. La controffensiva dei reparti speciali anti-sommossa e delle forze armate non si è fatta attendere, con la nuova retata di manifestanti. I monaci detenuti finiscono nei campi di lavori forzati, dove subiscono sedute di “rieducazione” in cui sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al partito comunista cinese.
Malgrado il susseguirsi di episodi di protesta, finora il governo di Pechino sembra essere riuscito a evitare una rivolta generalizzata come quella dell’anno scorso. Il 14 e 15 marzo 2008, approfittando anche dell’avvicinarsi dei Giochi olimpici e quindi della maggiore attenzione dell’opinione pubblica occidentale, la protesta partita da Lhasa era dilagata in tutto il Tibet, apparentemente cogliendo impreparate le autorità centrali. Quest’anno Pechino ha voluto prendere tutte le precauzioni, aumentando il dispiegamento preventivo di militari e polizia. Inoltre l’isolamento del Tibet e il divieto di accesso per gli stranieri ha reso più stringente il controllo cinese sulle informazioni che filtrano da quelle zone.
Nei confronti dell’estero, il governo della Repubblica Popolare ha alternato il bastone e la carota: da una parte le aperture al dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama (finora rivelatesi inconcludenti), dall’altra i “castighi” somministrati ai governi stranieri colpevoli di solidarietà col Tibet (come la cancellazione del vertice tra Cina e Ue dopo la visita del Dalai Lama all’Eliseo). L’ultimo paese a piegarsi al ricatto di Pechino è il Sudafrica. Ha negato il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto incontrare Nelson Mandela, come lui premio Nobel per la pace. Sdegnato un altro Nobel, l’arcivescovo Desmond Tutu, che ha accusato il Sudafrica di “soccombere vergognosamente alle pressioni di Pechino”. Il paese è mèta di importanti investimenti cinesi nelle materie prime, un legame economico che ha sicuramente pesato nel veto al Dalai Lama.