Sei camion di militari sono arrivati a Ragya da Golok e altre truppe sono state fatte confluire da Xining.In questo clima di grande tensione e perdurando i soprusi e le vessazioni, Shingsa Rinpoche (nella foto), un lama tibetano di alto lignaggio in esilio in India e abate del monastero di Ragya, ha scritto una vibrante lettera alle autorità centrali e locali del governo cinese. Shingsa Rinpoche è uno strenuo sostenitore dell’indipendenza del suo paese e figura tra gli organizzatori della “Marcia verso il Tibet” che dal marzo all’agosto dello scorso anno si snodò dalle infuocate pianure indiane fino al confine tibetano.Questa la traduzione in lingua italiana della sua lettera:
Al Comitato Politico Consultivo del Governo della Repubblica Popolare Cinese e ai Governi locali della provincia del Qinghai e dell’area di Golok.
Io, Shingsa Rinpoche, l’unicesima reincarnazione di Achu Shingsa, la Grande Madre di Je Tsonghapa -il fondatore della scuola Gelug del Buddhismo tibetano-, sono profondamente sconvolto e addolorato per le incommensurabili sofferenze inflitte dall’esercito cinese ai monaci del mio monastero di Ragya.
In modo particolare il 21 marzo, il monaco Tashi Sangpo dopo essere stato oggetto di indicibili torture e vessazioni da parte dei militari, si è suicidato. Inoltre molti funzionari del monastero sono stati arrestati e si sono tenute innumerevoli riunioni per interrogare ripetutamente i monaci, cosa che costituisce una palese violazione dei loro diritti fondamentali.
Quindi il Governo cinese ha la principale responsabilità riguardo una soluzione pacifica della crisi. Dovrà inoltre prendere seriamente in esame la sua politica di considerare i tibetani come “separatisti”. I dirigenti della Cina Popolare devono comprendere che da tempo immemorabile in Tibet, perfino i bambini più piccoli tibetani, conoscono il proverbio, “Nel Cielo il Sole e la Luna. Sulla Terra Sua Santità e il Panchen Lama”. Questa è dunque la verità storica in cui ha fiducia ogni tibetano.
Al contrario, il Partito Comunista Cinese, negli ultimi 50 anni ha creato le basi per la pacifica protesta del popolo tibetano impedendogli di pronunciare il nome e di venerare il suo unico leader spirituale. Questa è una chiara violazione dei diritti umani e religiosi del popolo tibetano. E contraddice le stesse norme della Costituzione cinese e le leggi relative alle autonomie regionali.
La crisi, che minaccia di precipitare in un problema globale, è palesemente responsabilità delle amministrazioni provinciali e locali. Noi tibetani abbiamo sempre desiderato vivere in Tibet seguendo il nostro modo di vere pacifico e indipendente. Ci sono evidenze e testimonianze che la paternità della crisi è da attribuire agli apparati militari e polizieschi cinesi. Quindi il Governo Centrale, quello Provinciale e l’amministrazione locale, hanno il dovere e la responsabilità di fare luce sulla vicenda e risolverla pacificamente.
Io quindi chiedo con forza al Governo cinese di dare spiegazioni su quanto successo in Tibet nel 2008 e nel 2009. Con speciale riguardo ai motivi che hanno condotto al sacrificio del monaco Tapey in Amdo e al suicidio di Tashi Sangpo del monastero di Ragya.
Inoltre chiedo che vengano fornite spiegazioni riguardo alla difficile situazione attuale nel monastero di Ragya e ai motivi che hanno portato l’amministrazione provinciale a far circondare Ragya da un ingente schieramento di militari. Il Governo dovrebbe anche scusarsi per avere profanato questo antico e sacro luogo di culto consentendo l’ingresso a soldati armati.
Se la questione non sarà chiarita e risolta in modo soddisfacente, il mondo non potrà non convenire che il Governo della Repubblica Popolare Cinese sarà il solo responsabile delle eventuali conseguenze. Il Governo Cinese deliberatamente conculca i diritti umani fondamentali e quelli religiosi del popolo tibetano e così facendo viola i principi della sua stessa Costituzione.
Il Governo cinese, in accordo con le aspirazioni del popolo tibetano, dovrebbe invece garantire che crisi analoghe non abbiano a ripetersi in futuro. Io gli chiedo con forza di spiegare al mondo e al popolo tibetano la presente crisi. Se la Cina aspira veramente a far parte del novero delle nazioni più responsabili e potenti, dovrà astenersi dal causare analoghe crisi in futuro. E dovrà anche accettare di mettere fine alle sue politiche violente e ai continui errori che sta da troppo tempo commettendo. Come recita il proverbio tibetano, “Inganni e bugie hanno le gambe corte ma la verità dura per sempre”.
L’epoca del colonialismo, quando una nazione poteva ingannare il mondo, fare impazzire la gente e opprimere i popoli dei Paesi occupati è finita per sempre. Sarebbe bene che la Cina prendesse atto di questa verità.
Shingsa Tenzin Choekyi Gyaltsen
24 marzo 2009