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Nuova Delhi, 31 marzo. (Apcom). Era il 30 marzo del 1959 quando l’allora ventiquattrenne Dalai Lama attraversò in incognito il confine con l’India dopo un viaggio di 13 giorni attraverso i picchi dell’Himalaya. La notizia del suo arrivo si seppe solo il giorno dopo quando fu accolto dal primo ministro Jawaharlal Nehru e da altri leader della resistenza indiana. Dopo 50 anni da rifugiato nella patria del buddismo, il leader tibetano è ancora il nemico numero uno della Cina e il suo movimento non violento per i diritti di 6 milioni di tibetani è ancora una delle spine del fianco del governo di Pechino. Definendosi “figlio dell’India” per i profondi legami spirituali e religiosi e presentatosi alla stampa con il “tikka” sulla fronte che per gli induisti rappresenta il “terzo occhio” della conoscenza, il Dalai Lama ha fatto il punto oggi a Nuova Delhi sul suo mezzo secolo di esilio forzato e sui rapporti con la Cina soprattutto dopo il rifiuto del visto di ingresso da parte del Sudafrica e il recente attacco dei pirati informatici cinesi.”Mi dispiace di non aver potuto incontrare i miei vecchi amici Mandela e l’arcivescovo Tutu – ha detto – ma il rifiuto del visto ha sollevato un tale clamore nel mondo che mi trovo ora a dover ringraziare sinceramente i cinesi per tanta pubblicità”. La prevista conferenza dei premi Nobel in Sudafrica per la pace è infatti stata sospesa. Facendo poi un excursus storico degli otto round di negoziati con le autorità cinesi finora infruttuosi, ha detto che la questione “non è il diritto al mio ritorno in Tibet”, quanto “i diritti di 6 milioni di tibetani”. “Se noi siamo rifugiati qui in India – ha aggiunto – non è perché siamo fuggiti a un disastro naturale o a una guerra civile, ma per la situazione disperata del rispetto dei diritti umani in Tibet”.
Il leader spirituale, che si è recato in mattinata in un pellegrinaggio interreligioso in otto centri di culto nella capitale, ha poi attaccato Pechino per la sua propaganda “rosa” che distorce la realtà in Tibet, come nel caso della commemorazione del 28 marzo del “Serfs Emancipation Day” (il giorno della liberazione dei servi) che in realtà segna l’inizio della repressione della rivolta di Lhasa, ma che Pechino celebra come il rovesciamento dell’ordine feudale tibetano. “Se veramente la situazione è rosea come i cinesi la dipingono – ha detto – allora non vedo il bisogno di chiudere il Tibet agli osservatori stranieri e di schierare l’esercito e i carri armati in ogni angolo”.
Rivolgendosi ai giornalisti, il Dalai Lama, ha fatto appello al governo cinese perché permetta i giornalisti e ai turisti stranieri di visitare il Tibet. “Andate a vedere se veramente i tibetani sono contenti come i cinesi vogliono far intendere. Se è davvero così, se è vero che sono felici della loro condizione, allora noi rinunciamo alla nostra battaglia”. Il settantatreenne leader spirituale è anche intervenuto a proposito della crisi economica mondiale, un tema che sarà al centro della riunione del G20 a Londra . “Sono ignorante in materia economica – ha ammesso – ma penso che le forze di mercato non piovano da cielo, ma sono frutto di azioni umane e non si possono quindi invocare come cause della crisi. E’ una contraddizione”. La vera causa invece “è la mancanza di principi, l’ipocrisia e la disonestà”.
Rispondendo invece alla domanda se non avesse rimpianti in questi 50 anni di esilio, il Dalai Lama ha detto: “da quando ho 16 anni le decisioni che ho preso si sono rivelate corrette” e ha citato il suo approccio moderato della “via di mezzo” sull’autonomia per il Tibet, che era stato messo in discussione un anno fa, ma che la comunità tibetana ha di nuovo confermato come strumento di rivendicazione politica.
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