di Piero Verni
(da “Il Riformista” – 12 aprile 2009)
Pechino ha cominciato a presentare il conto ai dimostranti tibetani che, nella primavera dell’anno scorso, avevano dato vita ad una rivolta che aveva infiammato non solo la Regione Autonoma del Tibet ma anche gran parte del territorio del vecchio Tibet indipendente oggi incorporato nelle province cinesi del Qinghai e dello Sichuan. Infatti l’8 aprile il tribunale di Lhasa ha emesso quattro condanne a morte e un ergastolo per cinque tibetani coinvolti negli scontri di Lhasa in cui numerosi civili persero la vita. Due delle esecuzioni capitali saranno eseguite nelle prossime settimane due fra un paio di anni. La mano pesante del governo cinese, che ha immediatamente suscitato le proteste degli esuli tibetani e di Amnesty International, sembrerebbe indicare che la situazione in Tibet è tutt’altro che normalizzata nonostante il 4 aprile, dopo oltre un anno di rigida chiusura e di una sorta di legge marziale non dichiarata, Lhasa e le aree circostanti siano state cautamente riaperte al turismo. Nella contea di Karze (Sichuan) si sta estendendo uno sciopero di contadini tibetani che hanno smesso di coltivare le terre per protesta contro le condizioni di lavoro a cui sono costretti dall’occupazione cinese. Anche qui l’intervento della polizia è stato duro. Phuntsok Rabten, un monaco di 27 anni che diffondeva volantini a favore dello sciopero, è stato ucciso a colpi di manganello e oltre settanta persone sono state arrestate ma la protesta continua. Inoltre non si è placato del tutto lo stato di forte tensione nella contea di Machen (Qinghai) dove nelle settimane scorse erano avvenute numerose manifestazioni a favore dell’indipendenza del Tibet che Pechino aveva represso violentemente. Il centro delle dimostrazioni era stato il monastero di Golog Ragya dove quasi tutti i religiosi erano stati imprigionati e il giovane monaco Tashi Sangpo si era addirittura suicidato per protestare contro il dominio coloniale cinese. E mentre a fine marzo il Governo Tibetano in Esilio diffondeva un drammatico video (con ogni probabilità girato dalla stessa polizia cinese e poi trafugato) in cui si vedevano militari e poliziotti cinesi malmenare con ferocia manifestanti già arrestati e ammanettati, in una Lhasa blindata e pattugliata da un imponente schieramento di forze dell’ordine, il regime celebrava una surreale “Festa della Liberazione del Tibet dalla schiavitù”. Senza rendersi conto della palese contraddizione di dover ricorrere a più di 20.000 soldati per impedire ai “liberati” di esprimersi liberamente in merito. Una situazione del genere rischia di rendere ancora più difficile la posizione del Dalai Lama e del suo governo che continuano a chiedere a Pechino l’apertura di un autentico negoziato ma senza ottenere niente che possa far sperare anche in una sia pur minima apertura. Anzi, tutto fa ritenere che quel “dialogo” di cui Dharamsala parla da diversi anni sia stato più una illusione che una effettiva realtà. Infatti il 31 marzo, nel corso di un’audizione promossa dalla Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento Europeo, l’inviato del Dalai Lama Kelsang Gyaltsen ha dovuto ammettere che, “Con nostro grande disappunto, nessuno dei nostri suggerimenti e delle nostre proposte è stato accolto o accettato dalla controparte cinese che non ha nemmeno contraccambiato alcuna delle nostre iniziative atte a costruire un clima di reciproca fiducia. Nè ha presentato delle sue proposte o suggerimenti per andare avanti. Sin dall’inizio di questo dialogo, nel 2002, la controparte cinese ha seguito un atteggiamento basato sulla non reciprocità, non riconoscimento, non impegno, non concessione, nessun compromesso”. E soprattutto Pechino (citiamo sempre la dichiarazione di Kelsang Gyaltsen) ha voluto mettere bene in chiaro che il contatto riguarda esclusivamente il, “… Dalai Lama e un gruppo di persone a lui vicine. Non ci può essere altra discussione che si spinga oltre questo orizzonte. Non esiste alcuna questione tipo il problema del Tibet. I tibetani in Tibet sono felici. Il Dalai Lama non ha alcun diritto di parlare della situazione interna del Tibet o in nome del popolo tibetano”. Quindi il “dialogo sino-tibetano, ammesso che lo si possa definire tale, sembra essersi definitivamente arenato. E a meno di improbabili colpi di scena, dobbiamo concludere che le numerose concessioni unilaterali degli inviati del Dalai Lama non sono riuscite a modificare la durezza delle posizioni cinesi e i loro diktat. Difficile prevedere quali potranno essere le prossime mosse del Dalai Lama e del suo governo che da oltre vent’anni hanno puntato tutto sulla speranza di poter trovare una soluzione moderata alla questione del Tibet. Pechino invece continua a tirare dritto per la solita strada. Nessuna concessione, nessun compromesso, nessuna pietà per chi protesta. E le condanne a morte e l’ergastolo dell’altro ieri lo testimoniano. Ma basterà tutto questo a normalizzare una volta per sempre il Tibet e il suo popolo?