Un meeting non così speciale

Pubblichiamo la versione italiana, a cura della redazione di Dossier Tibet, dell’articolo pubblicato da Jamyang Norbu, uno dei più accesi sostenitori dell’indipendenza del Tibet, all’indomani della fine dei lavori dello “Special Meeting” tenutosi a Dharamsala lo scorso novembre 2008.
Non nego di tenere gli occhi ben aperti   – “eyes wide shut”  prendendo in prestito il titolo dell’ultimo film di Stanley Kubrick. Ho visto i bagliori d’allarme  che hanno seguito l’annuncio dello Special Meeting di Novembre, uno dei quali, di cui ho parlato in un articolo precedente, è stato il rifiuto del primo Ministro Samdong Rimpoche di accogliere l’avviso generale che l’incontro potesse contribuire ad un ripensamento della nostra politica fallimentare verso la Cina.In una dichiarazione riportata da Phayul.com, Rimpoche sostiene che “noi siamo impegnati nel nostro Approccio della Via di Mezzo e continueremo nei nostri sforzi per una vera autonomia all’interno dei confini della Cina e questo non cambierà”.
C’é stata poi la composizione del raduno stesso. La maggior parte dei 600 partecipanti attesi era composta quasi esclusivamente di funzionari ed ex-funzionari del Governo tibetano, ex membri del parlamento, funzionari della burocrazia che dirige gli insediamenti, leader delle organizzazioni politiche regionali e gruppi di pressione sovvenzionati mascherati come organizzazioni politiche.
Al Tibetan Youth Congress, la più grande organizzazione politica nel mondo tibetano in esilio, e impegnata per l’indipendenza, sono stati assegnati solo due posti. Organizzazioni come Students for a Free Tibet non sono state nemmeno invitate ad assistere.
Nell’annuncio iniziale del meeting si era detto che avrebbero partecipato intellettuali tibetani, studiosi, esperti e i giovani.
Tuttavia si avvertiva che, mentre tutti i funzionari (in carica o in pensione) avrebbero ricevuto un rimborso delle spese di viaggio e soggiorno, tutti gli altri avrebbero dovuto pagare di tasca propria. È emerso inoltre che, mentre i funzionari avevano ricevuto inviti (o istruzioni) per partecipare allo Special Meeting, nessuno studioso o esperto tibetano aveva ricevuto un invito né era stato informato. Non c’è da meravigliarsi che nessuno di loro si sia fatto vedere al meeting.

Mi vengono in mente, senza pensarci troppo, alcuni studiosi che avrebbero potuto contribuire molto alla discussione. Per esempio il Professor Namkhai Norbu, l’unica autorità sulla protostoria del Tibet (autore di Drung, Diu and Bon; The Necklace of Gzi; A Cultural History of Tibet ed altre opere), avrebbe dovuto certamente essere invitato. C’è poi Tarthang Tulku, autore di una notevole raccolta di fonti scientifiche, Ancient Tibet, e Khetsun Sangpo, autore di una storia analitica del Buddhismo Tibetano in 13 volumi. Anche il contributo di Drikung Rimpoche sarebbe stato apprezzabile. Rimpoche da solo ha creato un incomparabile archivio storico del Tibet (la Songtsen Library) che ospita, tra l’altro, riproduzioni di quasi ogni testo tibetano esistente e documenti dall’Asia Centrale, i cosiddetti Documenti di Tunhuang, scoperti dagli archeologi all’inizio del XX secolo in Asia Centrale.
Abbiamo anche alcuni eminenti studiosi laici Tibetani, come Tsering Shakya, il nostro storico più importante per la storia del Tibet moderno (autore di Dragon  in the Land of Snows) e Samten Karmay, studioso di storia e cultura tibetana di fama internazionale. Samten Karmay, che è anche presidente della International Association of Tibetan Studies, ha pubblicato di recente un articolo direttamente correlato allo Special Meeting. In “Tibetan Religion and Politics” apparso su Phayul.com  il 13 Settembre 2008, ha portato argomenti ragionevoli e convincenti a sostegno della secolarizzazione del governo e della politica tibetani.

Tra quelli che vivono a Dharamsala abbiamo Tashi Tsering, direttore del Amnye Machen Institute  che, senza esagerare, può essere descritto come un archivio vivente sul Tibet. È consultato regolarmente da studiosi, lama, tibetologi stranieri, dal governo tibetano e, in numerose occasioni, dallo stesso Dalai Lama, per la sua conoscenza enciclopedica della storia, della cultura e della politica tibetana.
Tashi Tsering non è una pedante torre d’avorio ma uno studioso con una vasta conoscenza della società e della politica tibetana. È stato membro attivo della redazione di Mangtso, il più grande giornale in lingua tibetana dell’esilio, di cui per anni è stato co-direttore e ha curato la rubrica politica (Da-sar).
C’è bisogno di domandarsi perché queste persone avessero bisogno di inviti in prima fila? Perché non sono venute senza invito se hanno a cuore quello che succede in Tibet? Ma allora occorre rispondere domandando che problema ci fosse nello spedire una dozzina di inviti a studiosi ed intellettuali tibetani mentre se ne inviavano 500 o 600  a funzionari e politici. A meno che si volesse evitare la presenza di intellettuali e liberi pensatori in prima fila.

Il primo giorno il meeting si è tenuto al Tibetan Children Village. L’auditorium era pieno di funzionari di ogni specie. Quelli venuti con i propri mezzi erano seduti nelle ultime file. Lo speaker del Parlamento, Karma Choephel, era incaricato del discorso di apertura.
Ha riaffermato alcuni dei punti che hanno indotto a convocare il meeting: che il Dalai Lama aveva deciso quel raduno perché preoccupato dalla situazione disperata in Tibet; che l’incontro non mirava in alcun modo a cercare convalide o sostegno per la politica della Via di Mezzo  ma era invece un forum dove si auspicava emergessero idee e strategie alternative che avrebbero potuto aiutare il Dalai Lama e il Governo in Esilio a fronteggiare la crisi. Ha aggiunto che il Governo Tibetano stava anche considerando l’idea di tenere in seguito altri incontri con gruppi selezionati di partecipanti.

Il discorso del Primo Ministro, Samdong Rimpoche si è distinto per le sue smentite. Ha speso la maggior parte del tempo per informare il pubblico di ciò che il meeting non era. Una lista lunga e puntigliosa: il meeting “non era una strategia politica o una tattica per premere sulla Repubblica Popolare Cinese”; non era una manovra della CTA (Central Tibetan Authority) “per sminuire la responsabilità per i colloqui falliti o scaricarne su altri la vergogna”; non era un mezzo per cambiare l’attuale politica della CTA o prendere posizione; non un mezzo per cercare sostegno popolare per la politica corrente; e così via. Verso la fine del suo discorso la linea difensiva è diventata insopportabile: “Deve essere sottolineato che la CTA non ha alcuna agenda segreta e non c’è nessun piano nascosto dietro questo meeting. Il Kashag non farà perciò alcuna dichiarazione sui lavori e i programmi della CTA. Né il Kashag dirà una singola parola su ciò che è giusto o sbagliato nell’agenda di questo incontro.”
“Mi sembra che i lama parlino troppo” (ho pensato).
Poi i partecipanti sono stati divisi in commissioni per riunirsi lo stesso pomeriggio in diverse strutture all’interno del Gangchen Kyishong. Io ero nella commissione n° 16, con circa altre trenta persone, che si riunivano in una stanza del monastero di Nechung. La nostra commissione ha aperto i lavori con un anziano ex – kalon che ha tenuto banco per circa due ore e mezza. Quando ha finito restavano solo 15 minuti alla fine dell’incontro.
Sono riuscito a esprimere l’opinione che, considerando l’umiliante conferenza stampa di Pechino del 10 Novembre, in cui si é palesato che la Cina non avrebbe mai accettato la richiesta del Dalai Lama di una “significativa” autonomia, la prima cosa da farsi, da parte del Governo Tibetano, sarebbe stata quella di annunciare l’interruzione dei negoziati. Ho aggiunto che il governo non doveva specificare se la sua azione fosse provvisoria o permanente ma limitarsi a lasciare in sospeso la questione.

Il giorno successivo si è visto con chiarezza dove andava a parare la strategia dei sostenitori della “Via di Mezzo”. I rappresentanti dei centri e degli insediamenti tibetani in India e Nepal hanno insistito per leggere gli atti e le risoluzioni espressi negli incontri tenutisi in quelle comunità, probabilmente su istruzione di Dharamsala. Hanno anche preteso che l’intera documentazione fosse inclusa negli atti della commissione, come espressione del quasi unanime sostegno ricevuto dalla politica della “Middle Way” tra i tibetani. Ho provato a ribattere che lo Special Meeting era stato convocato per proporre e discutere idee e strategie nuove, e che una larga espressione pubblica di sostegno alla “Via di Mezzo” e a Sua Santità il Dalai Lama dovrebbe essere presentata al governo o a Sua Santità in una diversa occasione.
Anche il ministro in pensione cui accennavo prima si è espresso contro l’inclusione di quelle risoluzioni nello Special Meeting e ha preso una posizione interessante su questo tema, sostenendo che la conferenza stampa di Pechino del 10 Novembre e l’importante dichiarazione del Dalai Lama al Tibetan Children’s Village del 28 Ottobre (sulla perdita di fiducia nel governo cinese) avevano intaccato le basi della politica della “Via di Mezzo” del Governo Tibetano. Quindi gli atti e le risoluzioni di incontri pubblici tenuti prima di questi due eventi critici erano adesso invecchiati e irrilevanti, indipendentemente dal patriottismo e dalle buone intenzioni dei partecipanti. Ha concluso che ciò che era necessario ora era esprimere idee e strategie nuove, che tenessero conto delle ultime dichiarazioni del Dalai Lama e degli eventi del 10 Novembre e che lo Special Meeting era il luogo ideale per avviare una nuova discussione in proposito, senza intralciare la strada con atti, dibattiti e discussioni precedenti. Ma i sostenitori della “Via di Mezzo” hanno insistito nel leggere i documenti per intero.

Questi incontri pubblici si erano tenuti in molti centri tibetani poco dopo l’annuncio iniziale dello special Meeting in Settembre. Da quanto mi è stato riferito, sembra che siano stati condotti in modo da creare l’apparenza di un sostegno entusiastico alla politica della “Via di Mezzo”. In alcuni casi si è data l’impressione che il popolo tibetano non voglia alcuna discussione su questo argomento ma si rimetta alla fede assoluta nei poteri di onniscienza (thamchekyenpa) del Dalai Lama, capace di prendere comunque la giusta decisione.
Certo per molti tibetani questa fede é assolutamente naturale e non richiederebbe alcuna forzatura da parte dei politici. Tuttavia, a causa dei ripetuti fallimenti degli sforzi negoziali e della dimensione delle rivolte in Tibet dal marzo 2008, un numero crescente di tibetani ha cominciato a mettere in discussione l’approccio della “Via di Mezzo”. Probabilmente questi incontri pubblici sono stati organizzati proprio per prevenire questi ripensamenti.
Il Tibetan People’s Movement for Middle Way aveva dichiarato pubblicamente di voler organizzare incontri pubblici e “workshop” per istruire il popolo tibetano sulla politica della “Via di Mezzo”. Si sono poi uniti a questa campagna ben coordinata altri gruppi politici, organizzazioni regionali e burocrati. Dai rapporti che ho ricevuto sembra che il tono dominante fosse negativo e gli argomenti proposti a sostegno e giustificazione della linea politica consistessero quasi esclusivamente in mera tattica.
Si é sfruttata soprattutto la paura, sempre presente in ogni discussione su “Rangzen” e “Via di Mezzo”, che la religione, la cultura e la stessa identità tibetana stiano per essere completamente spazzate via dalla rapidità dei trasferimenti di popolazione cinese in Tibet. Ne deriva che non c’è tempo di impegnarsi per l’indipendenza ma si deve accettare una “significativa autonomia” sotto la Cina. Il fatto che la Cina non abbia mai, neppure lontanamente, offerto di fermare il trasferimento di popolazione o il genocidio culturale in cambio della rinuncia all’indipendenza è qualcosa su cui si è sempre sorvolato.
Ciò che, invece, è invariabilmente sottolineata é la supposta ”assicurazione” che Deng Xiaoping avrebbe data a Gyalo Thondup nel 1979 che, se i tibetani avessero rinunciato all’indipendenza, di tutto il resto si sarebbe potuto discutere. Non si considera mai la possibilità che Deng possa non aver offerto affatto tale garanzia o, più probabilmente, non l’abbia espressa esattamente nei termini ottimistici in cui la interpretò Gyalo Thondup. Anche nei commenti alla conferenza stampa di Pechino del 10 Novembre, dove i funzionari cinesi ottusamente (e sprezzantemente) hanno negato che Deng Xiaoping abbia mai pronunciato una simile affermazione, non sembra esserci alcuna caduta di fiducia nella “promessa” di Deng che, per i più tenaci devoti della Via di Mezzo, è ora considerata come una inviolabile verità spirituale.
Quando questa storia della “promessa” di Deng si é presentata nella mia commissione ho ricordato che l’ex governatore di Hong Kong, Chris Patten, in un suo libro (East and West) sul passaggio della città dalla Corona Britannica alla Cina, ha evidenziato come fosse cruciale per i negoziatori occidentali non prendere alla lettera assicurazioni e promesse fatte da importanti leader cinesi. Ho aggiunto che questo problema è menzionato anche in altri libri e pubblicazioni sui negoziati con la Cina, ma stavo parlando a un muro.

Un altro argomento è stato che la causa tibetana perderebbe il sostegno nelle nazioni del mondo se abbandonasse la Via di Mezzo per abbracciare al via dell’indipendenza. La calda accoglienza che il Dalai Lama riceve nei suoi viaggi in occidente e le dichiarazioni di capi di stato e leader politici che esortano la Cina a trattare con il Dalai Lama è stata ingenuamente interpretata dai tibetani (e talvolta grazie ai funzionari tibetani) come prova del sostegno occidentale alla politica della Middle Way.
Di certo nessun leader occidentale ha mai espresso sostegno per aspetti della Via di Mezzo come l’unificazione delle tre antiche province del Tibet (che includerebbe tutto il Qinghai e gran parte del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan) e l’instaurazione di un’entità democratica autonoma all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Quello che alcuni leader e capi di stato occidentali hanno occasionalmente fatto è stato di “sollecitare” i leader cinesi a avviare colloqui con il Dalai Lama, spesso con il solo obiettivo di “un suo pacifico ritorno in Tibet”.
Se si ascoltano I discorsi fatti da leader americani in occasione della cerimonia per il conferimento della medaglia d’oro al Dalai Lama (è disponibile in DVD), si trovano anche troppi appelli ai leader cinesi perché consentano al Dalai Lama di “tornare in Tibet” e anche di “tornare in Cina”.
La maggior parte dei leader occidentali sanno bene che la Cina non ha alcuna intenzione di fare concessioni significative al Dalai Lama, ma il gesto di sostenere il dialogo gli fa fare bella figura con il proprio elettorato e consente di evitare di prendere una vera posizione sul problema tibetano, che potrebbe far arrabbiare i cinesi e avere ripercussioni negative sul commercio.
Un’altra affermazione molto disonesta e capace di provocare problemi, usata dai propagandisti della Via di Mezzo per creare allarme, è quella che sostiene che se i tibetani abbandonassero la Via di Mezzo per scegliere Rangzen, il governo indiano deporterebbe in Tibet tutti i rifugiati.
Forse dovrei menzionare anche un’altra pretesa che sembra aver causato grande ansietà nei tibetani più anziani, soprattutto quelli che vivono in istituzioni come la Old People Home di Dharamsala. Si dice che se i tibetani chiedessero l’indipendenza politica gli aiuti occidentali per i rifugiati sarebbero tagliati e finirebbe il sostegno degli sponsor. Ho sentito questa voce da almeno una coppia di anziani tibetani a Dharamsala, se qualcuno dei lettori ha sentito qualcosa di simile gli sarei grato se me lo riferisse.

Ovviamente non tutti i sostenitori della Via di Mezzo usano argomenti così disonesti. Ho incontrato un giovane monaco del monastero di Sera che era un convinto sostenitore della politica del Dalai Lama e che aveva viaggiato tra insediamenti e comunità per istruire il pubblico in proposito. Ho partecipato insieme a lui ad un dibattito organizzato dal corrispondente di Voice of America.
Il monaco tentò, in modo molto amichevole, di spiegarmi quelli che percepiva come punti di forza filosofici della Middle Way e quando il moderatore, Namgyal Shastri, gli chiese se avesse mai usato argomenti disonesti a sostegno della sua opinione, come si dice avessero fatto altri, negò con enfasi. Forse era ingenuo intellettualmente ma di certo sincero.
Nondimeno non c’è dubbio che organizzazioni politiche e funzionari abbiano usato a sostegno della Middle Way argomenti e metodi che sfruttavano l’ignoranza e le paure di un pubblico tibetano non istruito. Ciò emerge con chiarezza non solo dalle testimonianze che ricevo ma anche dalla retorica di molti sostenitori della Via di Mezzo allo Special Meeting.

Questa estesa campagna di propaganda è stata ben organizzata e senza dubbio ben sostenuta, ma non è chiaro se il Governo Tibetano di Samdong Rimpoche sia stato coinvolto in qualche modo. Da alcuni discorsi riportati negli incontri tenutisi negli insediamenti sembra chiaro che la demonizzazione degli attivisti per l’indipendenza abbia avuto luogo durante la campagna.
Il presidente della società dell’U-Tsang, presente nel mio comitato, ha parlato a lungo di come il fallimento dei colloqui negoziali con la Cina fosse imputabile al Tibetan Youth Congress  e a tutti quelli che, con le loro proteste contro le olimpiadi di Pechino e le dimostrazioni ad ogni tappa della torcia olimpica, avrebbero deliberatamente provocato il governo ed il popolo cinese.
Si é fermato prima di biasimare i dimostranti in Tibet. Ha aggiunto che il dolore e il disappunto del Dalai Lama sono attribuibili all’azione del Tibetan Youth Congress. Ha anche accusato le organizzazioni coinvolte nella Marcia per il Tibet del 2008 di aver espressamente disobbedito al Dalai Lama e di avergli causato molto dispiacere.
Questa è stata la linea principale: che se noi causiamo ulteriori dispiaceri al Dalai Lama egli lascerà il potere ed il suo ruolo di guida, in pratica ci abbandonerà. Il solo modo di evitare questa terribile calamità sarebbe quello di dimostrargli assoluta e acritica fedeltà, e assicurare assoluto sostegno alle sue politiche, compresa la Middle Way. Tutto questo può apparire senza dubbio un ricatto emotivo, o spirituale, ma è efficace.

Non voglio dare l’impressione che non vi sia stato alcun dissenso o che nessuna idea originale sia stata espressa nello Special Meeting. Anche se in minoranza, i sostenitori di Rangzen non sono stati reticenti nel presentare delle idee, alcune anche molto radicali. Un paracadutista in pensione, nella nostra commissione, ha sostenuto appassionatamente la necessità per i tibetani di imparare a condurre una campagna di guerriglia contro le forze di occupazione cinesi in Tibet. Ha anche espresso chiaramente la sua candidatura a volontario per questo.
La combriccola della Middle Way gli è subito saltata addosso, accusandolo di slealtà verso il Dalai Lama e la sua dottrina non violenta. Mi è sembrato che questa critica fosse fatta in modo derisorio, per dipingere i tibetani che avevano combattuto per il loro paese come sleali e anche stupidi.
Questo mi ha indotto a rispondere per le rime. Ho ricordato che il Dalai Lama era stato salvato dai cinesi da uomini in armi e che non solo aveva approvato i tibetani che combattevano per il proprio paese ma anche indirizzato loro uno speciale messaggio, che era stato distribuito da aerei a Sog, Naktsang e Pembar, dove la popolazione si era sollevata contro i cinesi.

Ho anche ricordato a tutti che il Governo Tibetano in Esilio aveva non solo approvato che i tibetani si arruolassero nell’Establishment 22, ma reso obbligatorio (negli anni ’70 e ’80) il servizio in questa unità militare dopo il 12° anno di studi, per gli studenti tibetani rifugiati. Inoltre, il Dalai Lama non aveva obiettato alla decisione del governo indiano di inviare una forza speciale di frontiera nella guerra del Bangladesh, nel 1971, in cui molti tibetani morirono in azione. Lo stesso Dalai Lama presenziò alla sfilata di vittoria di quella unità nella sua base di Chakrata e passò in rivista i soldati dopo la marcia. Infine ho sottolineato che se ogni tibetano dovesse abbracciare la dottrina della non violenza per dimostrare fedeltà al Dalai Lama, allora anche le sue guardie del corpo non dovrebbero opporre le armi e sparare a chi volesse attaccare il Dalai Lama.
Non credo sia necessario sottolineare che l’ufficiale in congedo di cui parlavo era un sostenitore dell’indipendenza. Si può essere d’accordo o meno con lui circa l’efficacia della guerriglia nello stadio attuale della nostra lotta per la libertà ma bisogna ammettere che quella idea era sua. E questo è qualcosa che differenzia gli attivisti Rangzen dai devoti della “Via di Mezzo, il cui intero sistema di pensiero è basato sulla fede indiscutibile nel Dalai Lama. Ogni argomento proposto dai credenti nella Via di Mezzo in ogni discussione è invariabilmente di natura ufficiale.
Sebbene i difensori dell’idea di Rangzen fossero ovviamente in minoranza nello Special Meeting, le sole idee e suggerimenti che possano considerarsi originali o comunque degni di nota sono venuti da loro. Ne ho riportati alcuni senza entrare nei particolari ma ce n’è uno sul quale ho lavorato una notte intera.

Dopo aver sostenuto che il governo tibetano avrebbe dovuto sospendere i negoziati con la Cina, ho proposto alla mia commissione un passo ulteriore che ne sarebbe la logica conseguenza, da mettersi in opera nei prossimi mesi: costituire una Rangzen Review Commission, in seno al Parlamento in Esilio (rangzen thaplam ki kyarship tsokchung). A questa commissione dovrebbero partecipare membri anziani del parlamento e magari un membro del Kashag, con il compito di ascoltare testimonianze di leader, portavoce e attivisti delle organizzazioni che sostengono l’idea di Rangzen. La commissione potrebbe porre domande circa il perché essi ritengano possibile l’indipendenza del Tibet e i loro piani e strategie per conseguirla e potrebbe anche sollecitare l’opinione di esperti, studiosi, politici, legali e di chiunque si occupi di Tibet.
L’istituzione di questa commissione non impegnerebbe il governo tibetano a sostenere una politica indipendentista ma dimostrerebbe che il governo in esilio ha a disposizione alternative alla mera ricerca di negoziati con la Cina. Inoltre, sarebbe una risposta degna ed appropriata alla offensiva conferenza stampa di Pechino del 10 Novembre. Il risultato più importante sarebbe poi l’avvio di un vero dibattito nazionale sulla direzione futura della lotta tibetana.

Proposte simili di revisione politica sembra che siano emerse anche in altre commissioni. In una delle quali si è anche proposta una revisione della stessa politica della Via di Mezzo. Ovviamente questi suggerimenti sono venuti dalla minoranza di attivisti Rangzen e anche da alcuni dei funzionari in congedo più intelligenti, allarmati dal completo fallimento dei negoziati e dalla totale incapacità del governo in esilio di rispondere alla crisi in Tibet.
L’ultimo giorno dello Special Meeting tutti i partecipanti si sono raccolti all’auditorium del TCV, dove sono state lette le relazioni delle diverse commissioni. L’inclusione degli atti e risoluzioni dei meeting precedenti, quelli tenutisi negli insediamenti, negli atti dello Special Meeting ha oscurato qualunque discussione avesse avuto luogo nelle commissioni. C’è stata scarsa menzione delle politiche alternative, delle idee e strategie che erano state proposte dai sostenitori di Rangzen. La cerimonia conclusiva dello Special Meeting ha creato la netta impressione di un quasi unanime sostegno alla politica della Via di Mezzo e della indiscutibile accettazione di qualunque decisione del Dalai Lama.
Nel suo discorso conclusivo Samdong Rimpoche ha dichiarato la vittoria della linea politica della Via di Mezzo, affermando che oltre il 90% dei tibetani sostengono l’approccio politico del Dalai Lama. Non ho assistito al Meeting del Tibet Support Group a New Delhi la settimana successiva, ma mi è stato riferito che Samdhong Rimpoche ha ripetuto qui il proclama di vittoria e le stesse statistiche.

Non si può girare intorno a questo finale e spiacevole dilemma: si è trattato di una manovra combinata fin dall’inizio? Lo Special Meeting è stato una manovra da parte del Governo in Esilio per forzare un sostegno pubblico a una politica che è andata in pezzi a marzo, con la rivolta indipendentista in Tibet, e poi vergognosamente ripudiata da Pechino nella conferenza stampa del 10 Novembre? C’è un’altra possibilità (e una parte di me vuole ancora crederci), che il Dalai Lama si sia reso conto delle crepe nella sua politica e abbia convocato in buona fede lo Special Meeting, nel sincero desiderio di ascoltare idee e strategie alternative. È possibile che poi subordinati, funzionari e altri, interessati a mantenere lo status quo, abbiano diretto il meeting per dare al Dalai Lama l’impressione che l’opinione pubblica tibetana sostenesse entusiasticamente e quasi all’unanimità la sua politica della Via di Mezzo e mai avrebbe perso fiducia in Lui o contestato qualunque Sua decisione.
Ma ciò pone la domanda del perché Sua Santità non fosse consapevole che la maggior parte dei partecipanti al meeting era composta da persone che avevano invariabilmente echeggiato il suo pensiero e i suoi sentimenti e non lo avrebbero mai contraddetto in alcuna circostanza. Perché non ha convocato un meeting di veri esperti, intellettuali e persone di vedute indipendenti e chiesto loro apertamente (e non attraverso l’intervento di commissioni e del Primo Ministro) cosa pensassero della crisi attuale?

Sua Santità ha partecipato, ed anche presieduto, raduni internazionali di fisici e scienziati ed é molto probabilmente consapevole che, in ogni tentativo di cercare la verità, il valore della competenza autentica e del pensiero indipendente e coraggioso è preferibile alla fede e alla devozione.
Credo si debba dire che lo Special Meeting ha posto più domande di quelle a cui intendeva dare risposta.

Jamyang Norbu(Traduzione a cura di Valerio D., redazione di Dossier Tibet)