IL MASSACRO DI PIAZZA TIENANMEN: APPELLO DEI DISSIDENTI ALLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

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Pechino, 8 maggio 2009. Nell’approssimarsi del ventesimo anniversario della repressione seguita alle proteste di Piazza Tienanmen, i dissidenti cinesi hanno chiesto alla comunità internazionale di intervenire presso il governo di Pechino affinché riveda la sua posizione su quanto accadde in quei giorni. All’alba del 4 giugno 1989, i carri armati e le truppe dell’esercito cinese entrarono nella piazza uccidendo centinaia, forse migliaia di dimostranti. Finora, tuttavia, le autorità governative si sono sempre rifiutate di fornire una precisa versione della strage che in Cina rimane un argomento tabù, a mala pena definito “un’agitazione politica”, se non del tutto ignorato.I sopravissuti all’eccidio e i loro famigliari affermano che, con il suo silenzio, la comunità internazionale avalla la repressione compiuta dal Partito Comunista. “Finora, la comunità internazionale ha adottato una politica di accondiscendenza nei confronti del governo cinese” – ha dichiarato Ding Zilin, padre di un ragazzo ucciso.
“Di fronte a tanta atrocità, il mondo sembra mostrare indulgenza” – dice Ding, settantadue anni, ex professore di filosofia e ora alla testa del Movimento delle Madri di Tienanmen che, per vent’anni, ha invano cercato di farsi ascoltare dal governo cinese.Dello stesso parere il dissidente Bao Tong che invoca l’aiuto della comunità internazionale perché il governo riabiliti le vittime del massacro, vive o morte. Solo così, afferma Bao, la Cina potrà porre rimedio agli “errori del passato”. “Non voler offendere la Cina significa non poterla aiutare, non poter aiutare il suo popolo a ottenere i suoi diritti e non poter aiutare la comunità internazionale ad avere tra i suoi membri un partner affidabile, sicuro e pacifico”.

Qi Zhiyong, che il 4 giugno 1989 perse una gamba, invoca giustizia ma, allo stesso tempo, si dichiara pessimista circa la volontà di Pechino di riconoscere i “crimini” commessi a Tienanmen. Secondo Qi, il partito è una “dinastia cinese” che mira soltanto alla propria sopravvivenza ricorrendo, se necessario, anche alla forza. “Fino a quando il Partito non modificherà il proprio giudizio sui fatti del 4 giugno riconoscendo che si è trattato di un movimento patriottico e democratico, non ci sarà democrazia in Cina” – ha affermato. “Ciò significa” – ha concluso – “che tutto quello che ci raccontano sui progressi in materia di democrazia e diritti umani non è altro che una bugia”. (Phayul/AFP)