L’ultima tappa della sua vita la vede a capo del World uyghur congress (Wuc). Che bilancio traccia di questi tre anni a capo dell’ombrello delle associazioni della diaspora uigura?
Fin dal 2006 il mio obiettivo è stato quello di riunire tutti gli uiguri dispersi ai quattro angoli del pianeta, creando varie associazioni che si riconoscessero nel Wuc. Questi gruppi stanno facendo conoscere al mondo i problemi del nostro popolo e si stanno occupando di promuovere la nostra lingua, storia e cultura tra le nuove generazioni costrette a vivere lontane dal Turkestan orientale (il nome con cui gli uiguri chiamano lo Xinjiang, ndr). E negli ultimi tre anni, per la prima volta, le nostre istanze sono state portate all’attenzione dei parlamenti di Unione Europea, Stati Uniti e Germania, dove ho avuto l’onore d’intervenire.
Riuscite a mantenere contatti con lo Xinjiang, nonostante le rigide misure di sicurezza messe in atto dalle autorità di Pechino?
Essendo stati bollati dalla Cina come «organizzazione terroristica», ci è particolarmente difficile. Ciononostante abbiamo le nostre fonti. Malgrado il fatto che chiunque provi a consultare siti internet che parlano di me o della nostra organizzazione venga trattato come «terrorista».
Non crede che lo sviluppo economico della Cina – che ha portato alla costruzione di infrastrutture e all’aumento del reddito nello Xinjiang – sia appannaggio anche degli uiguri?
Ad avvantaggiarsi dello sviluppo del Turkestan orientale è soltanto Pechino. Mentre le nostre risorse naturali – gas, petrolio, uranio e tante altre – vengono trasferite verso l’interno, noi uiguri siamo esclusi dal mercato del lavoro e, attraverso il divieto d’insegnamento della lingua uigura, la nostra cultura viene cancellata. La marginalizzazione economica degli uiguri è stata raggiunta con i bingtuan, grandi strutture produttive militarizzate – sorte soprattutto lungo le frontiere con l’Asia centrale – e destinate a dare casa e lavoro a milioni d’immigrati han.
Nel suo libro racconta di proteste spontanee inscenate negli anni ’80 e ’90 dalla popolazione uigura contro la presenza dei coloni han. E oggi?
Ora le uniche manifestazioni di dissenso che ci sono consentite sono quelle all’estero. Dopo le aperture degli anni ’80 e ’90 siamo tornati a una situazione simile a quella della Rivoluzione culturale.
Qual è il suo rapporto con gli han, etnia maggioritaria in Cina?
Con gli han si possono avere ottime relazioni, di comprensione e rispetto reciproco. Ma la situazione cambia con gli immigrati nel Turkestan orientale. Lì ci hanno reso la vita impossibile: il solo fatto di parlare di politica, dei problemi della nostra gente, porta gli uiguri a essere etichettati come «separatisti», «fondamentalisti islamici», «terroristi».
Prima delle Olimpiadi dell’agosto 2008, Pechino ha diffuso notizie di attentati nello Xinjiang. Che informazioni avete su quegli episodi?
Sono state delle messinscene. Quello che invece non ha avuto alcun risalto ma che è un fatto reale è che, nel periodo precedente i Giochi, 15mila uiguri sono stati arrestati o fermati con l’accusa di «terrorismo». Grazie al palcoscenico offerto dalla più importante manifestazione sportiva, le autorità di Pechino hanno fatto credere al mondo che nel Turkestan orientale ci fossero migliaia di terroristi, legittimando così un’ulteriore stretta repressiva nei confronti del nostro popolo.
Nel febbraio scorso il ministro degli esteri statunitense Hillary Clinton, in visita a Pechino, ha detto: faremo pressioni per i diritti dell’uomo, ma in questo momento l’economia viene prima di ogni altra cosa. Avete perso il vostro principale alleato?
Purtroppo in questo momento la crisi economica è al primo posto nell’agenda delle grandi potenze. Ma le nostre pressioni nei confronti del Dipartimento di stato americano sono continue e ho fiducia che potremo continuare a ricevere da Washington l’appoggio di cui abbiamo bisogno.
Protestate perché Islamabad ha recentemente consegnato a Pechino nove uiguri che in Pakistan si addestravano per attaccare la Cina. Pechino non ha diritto a difendersi?
Negli scorsi anni il Pakistan ha consegnato agli Stati Uniti 21 uiguri catturati in Afghanistan. Queste persone sono poi state giudicate innocenti da Washington: alcuni di loro hanno trovato asilo in Albania, di altri attendiamo ancora la liberazione.
Lasciamo da parte i presunti terroristi. Non teme che nelle condizioni d’isolamento in cui è costretto lo Xinjiang a prevalere tra il suo popolo possa essere un’interpretazione fondamentalista dell’islam?
Tradizionalmente gli uiguri non hanno nulla a che fare col fondamentalismo. Ogni giorno però nel Turkestan orientale degli uiguri vengono arrestati perché accusati di essere fondamentalisti islamici. Per Pechino un «terrorista» e un «integralista» sono la stessa cosa. Sono etichette che ci appiccicano per nascondere le loro politiche nei nostri confronti: divieto della diffusione della letteratura uigura, trasferimento forzato delle ragazze uigure all’interno della Cina, controllo delle nascite, limitazioni al culto islamico, immigrazione di milioni di han e mancanza di lavoro per noi, esecuzioni di detenuti politici. Lo Xinjiang è l’unica regione della Cina dove vengono ancora eseguite condanne a morte a carico dei prigionieri politici.
Se la Cina vi concedesse una autonomia reale, rinuncereste al sogno di un Turkestan orientale indipendente?
Noi chiediamo libertà. Oggi soltanto una minoranza del nostro popolo spera nell’indipendenza. Ci battiamo per un’autonomia vera, come quella richiesta dal Dalai Lama per il Tibet. E questa autonomia potremo ottenerla soltanto all’interno di un processo più generale: quello della democratizzazione della Cina, di cui si avvantaggerebbero tutti i popoli, non solo gli uiguri. Se ci dessero libertà, saremmo disposti anche a vivere con i milioni di coloni han che sono stati spediti nella nostra patria.
Il Manifesto, 6 maggio 2009