Dharamsala, 26 maggio 2009. I dieci monaci che il 10 maggio scorso avevano iniziato una marcia di protesta verso la frontiera tibetana sono stati fermati il 21 maggio dalla polizia indiana e in data odierna sono arrivati a Dharamsala, la “capitale” del mondo tibetano in esilio. I religiosi hanno raccontato di essere stati fermati, dopo otto giorni di marcia, nei pressi della cittadina di frontiera di Sumdo, nello stato indiano dell’Himachal Pradesh. Trasferiti nella stazione di polizia di Kaza, nella valle dello Spiti, sono stati portati, dopo tre giorni, a Manali e liberati senza che sia stata formulata a loro carico alcuna accusa specifica. Da Manali, i monaci hanno raggiunto in autobus Dharamsala.Per evitare di essere intercettati e arrestati dalla polizia Indiana, i monaci si sono spostati per lo più di notte, marciando tra la neve. Giunti nei pressi del confine, hanno deciso di mandare un messaggio a Shingza Rinpoche, coordinatore dell’azione di protesta, per aggiornarlo sulla situazione.
“La polizia ha sequestrato la telecamera e ha picchiato il nostro operatore” – ha dichiarato Lobsang Janpa, uno dei monaci del gruppo, “Io stesso sono stato malmenato ma non ne vogliamo alla polizia indiana” – ha proseguito – “Il nostro intento era di raggiungere il Tibet per portare avanti la nostra causa e non quello di sfidare le pattuglie di confine”.
“Avevamo con noi solo le provviste giornaliere e due bandiere tibetane, una da piantare in India e un’altra da piantare in Tibet come gesto di definizione del territorio tibetano e come segno di unità e solidarietà tra i due paesi: il confine è infatti tra l’India e il Tibet e non tra l’India e la Cina, storicamente questo confine non esiste”, ha detto Lobsang. “La nostra missione è fallita ma il nostro morale è alto”.“Abbiamo comunque riportato una vittoria”- ha dichiarato Shingza Rinpoche – “perché questo insuccesso ci ha insegnato come comportarci in futuro per raggiungere i nostri obiettivi”.
“La polizia ha sequestrato la telecamera e ha picchiato il nostro operatore” – ha dichiarato Lobsang Janpa, uno dei monaci del gruppo, “Io stesso sono stato malmenato ma non ne vogliamo alla polizia indiana” – ha proseguito – “Il nostro intento era di raggiungere il Tibet per portare avanti la nostra causa e non quello di sfidare le pattuglie di confine”.
“Avevamo con noi solo le provviste giornaliere e due bandiere tibetane, una da piantare in India e un’altra da piantare in Tibet come gesto di definizione del territorio tibetano e come segno di unità e solidarietà tra i due paesi: il confine è infatti tra l’India e il Tibet e non tra l’India e la Cina, storicamente questo confine non esiste”, ha detto Lobsang. “La nostra missione è fallita ma il nostro morale è alto”.“Abbiamo comunque riportato una vittoria”- ha dichiarato Shingza Rinpoche – “perché questo insuccesso ci ha insegnato come comportarci in futuro per raggiungere i nostri obiettivi”.