July 7th, 2009. Secondo notizie di queste ore (19,30 di martedì 7 luglio 2009), centinaia di donne di etnia uigura hanno manifestato anche questa mattina ad Ürümci, capitale della Regione Autonoma dello Xinjang. Sembra dunque che la rivolta contro il regime coloniale cinese nel Turkestan orientale, esplosa domenica sera, continui e la situazione rimanga assai tesa. Evidentemente i massacri perpetrati dalla brutale repressione cinese, non sono riusciti a placare la collera degli uiguri che dal 1949 subiscono l’occupazione di Pechino. Le stime di ieri, già terribili, che parlavano di oltre 150 morti, un migliaio di feriti e più di 2000 arresti, parrebbero errate per difetto. Secondo quanto riporta l’agenzia “Dossier Tibet” (www.dossiertibet.it), che ha un suo corrispondente nell’ovest cinese, i morti sarebbero addirittura 210. Inoltre i coloni di etnia han (cinese) avrebbero costituito bande paramilitari al comando di ufficiali in borghese della polizia armata che starebbero, “… prendendo d’assalto scuole, fabbriche, negozi, uccidendo barbaramente a colpi di arma bianca chiunque abbia l’aspetto di un uiguro. Testimoni riferiscono di numerose decapitazioni di donne e bambini.” Ora, anche mettendo in conto possibili esagerazioni, è indubbio che il maglio repressivo di Pechino stia oggi colpendo senza alcuna misericordia la popolazione uigura così come l’anno scorso aveva colpito quella tibetana. Così come da decenni si accanisce su tutti quanti si ostinano ad esprimere direttamente o indirettamente il proprio dissenso e continuano a rifiutarsi di farsi normalizzare all’interno della “società armoniosa” voluta dalla attuale leadership del Partito Comunista. Uiguri, tibetani, mongoli, praticanti della scuola religiosa Falun Dafa, militanti del sindacato clandestino, contadini coinvolti nelle innumerevoli proteste rurali… per tutti, l’unica risposta che Hu Jintao e il suo entourage sono in grado di dare, è quella della più ottusa e barbara violenza.
Già Hu Jintao, proprio lui. Quel distinto signore dall’aria rassicurante, dalle sopracciglia vagamente brezneviane e dallo sguardo miope che in questi giorni si trova in visita in Italia accolto con calore e affetto da tutta la nomenklatura del Bel Paese. Sia dai signori del governo sia da quelli dell’opposizione. Hu Jintao, di cui l’ineffabile ex ambasciatore Sergio Romano ha da poco tessuto l’elogio in un algido articolo comparso sul Corriere della Sera (“La mano tesa di Hu all’Europa”, 5 luglio 2007) proprio il giorno in cui si consumava il massacro di Ürümci. Hu Jintao, sempre lui, che i goliardi del movimento studentesco l’Onda (freschi reduci dalle vibranti contestazioni a Gheddafi, che al confronto di Hu fa la figura di un monellaccio da strada, ma che aveva il grande torto di aver firmato un accordo con Berlusconi, unico effettivo motivo delle ondeggianti proteste) si sono ben guardati dal disturbare. Hu Jintao, il grande amico della Fiat i cui dirigenti (che con tutta probabilità non sanno nemmeno cosa sia un “uiguro”) si apprestano a sbarcare a Pechino giulivi e soddisfatti dei loro contratti ipermilionari appena firmati alla presenza di un raggiante Silvio Berlusconi. Hu Jintao, infine, a cui le anime belle di casa nostra (e non solo) chiedono con garbo di essere un pochino più clemente, un pochino meno autoritario e di coniugare finalmente le grandi aperture economiche con qualche spruzzata di “diritti umani”. Su questo ultimo tema, vale a dire se sia sensato chiedere al presente regime cinese aperture sul tema dei diritti umani, tornerò tra poco. Adesso vorrei cercare sinteticamente di chiarire cosa c’è alla base dell’esplosione della collera uigura di queste ore.
Gli uiguri, secondo il censimento del 2000 poco più di otto milioni, sono la principale popolazione dello Xinjiang, una immensa regione cinese che si estende su di un territorio di ben 1.650.000 kmq, vale a dire circa un sesto dell’intera Cina. Regione principalmente desertica, aspra, arida, punteggiata dalle esplosioni verdi delle sue rare oasi, l’odierno Xinjiang ha una storia politica tormentata che affonda nel passato remoto dell’Asia centrale. Il suo nome cinese significa letteralmente “Nuova Terra di Confine” ed attualmente rappresenta l’estremo angolo occidentale della Repubblica Popolare. Un angolo di grande importanza strategica dal momento che confina, oltre che con Russia e Mongolia, anche con le repubbliche islamiche ex sovietiche di Kazakhistan, Kirghizistan, Tajikistan, l’Afghanistan, il Pakistan e la parte del Kashmir controllata dall’India. Tutte aree dove sono in corso guerriglie sanguinose e notevolmente instabili sotto il profilo politico.
Gli uiguri continuano a chiamare il loro paese Turkestan orientale, dal momento che in larga maggioranza non accettano di sentirsi una “minoranza etnica” cinese ritenendo al contrario di essere una nazione illegalmente occupata dal 1949, quando gli eserciti di Pechino misero violentemente fine alla vita della Repubblica del Turkestan Orientale che, nel 1955, divenne ufficialmente la Regione Autonoma del Xinjiang. Nel corso degli ultimi due millenni questa regione è stata sotto l’autorità di diverse nazioni ed imperi, da quello Turcomanno fino a quello Manciù passando per tibetani, mongoli, e cinesi ma tra il 1933 e il 1934 e tra il 1944 e il 1949 fu una repubblica indipendente.
Al di là delle complesse e controverse vicende della geopolica, gli uiguri si considerano del tutto differenti dai cinesi e non senza ragione. Sono infatti profondamente legati ad una peculiare forma di Islam sideralmente lontana dalle asprezze e dai fanatismi dell’integralismo di altre nazioni musulmane, parlano una lingua propria di radici turche, scrivono in arabo, ed anche nei tratti somatici si distinguono radicalmente dai cinesi.
Fino all’inizio degli anni ’60 vi erano pochissimi abitanti cinesi nel Xinjiang. La quasi totalità della popolazione era uigura, soprattutto nelle città, mentre una consistente minoranza kazaka abitava nelle campagne. Quando nel 1962 all’inizio delle tensioni tra Cina Popolare e Unione Sovietica, 62.000 kazaki e uiguri fuggirono dal Xinjiang sconvolto dalla carestia indotta dal disastroso Grande Balzo in Avanti voluto da Mao, Pechino comprese che le popolazioni di quella remota regione avrebbero potuto causare più di un problema. Dopo la parentesi allucinata e terribile della Rivoluzione Culturale che causò anche in Xinjiang le devastazioni e gli orrori di cui si rese responsabile in Tibet e nell’intera Cina, a partire dal 1980 il governo comunista decise di favorire con ogni mezzo un forte flusso immigratorio di popolazione cinese e nella “Nuova Terra di Confine” la percentuale di han passò in breve tempo da cifre irrisorie a un drammatico 40%. In termini numerici, da poche decine di migliaia a oltre sette milioni. Però questo massiccio insediamento di coloni e nuovi abitanti, lungi dal normalizzare la situazione suscitò tra gli uiguri (e i kazakhi che oggi rappresentano circa l’8% della popolazione) un risentimento tale da rinfocolare le spinte indipendentiste e autonomiste.
Il risultato più eclatante della politica di sinizzazione lo si può vedere proprio ad Ürümci, “il bellissimo pascolo”, la capitale del Xinjiang. Un tempo verdeggiante oasi situata a circa 800 metri di altezza, oggi è stata quasi totalmente trasformata in una sciatta cittadina della periferia dell’Impero. Gli undicimila kmq. su cui sorge, sono ormai quasi interamente coperti da anonimi e scialbi palazzoni che danno l’impressione di voler assurgere, senza riuscirci, alla dignità di grattacieli. In questa città industriale, degli oltre due milioni di abitanti, solo il 12% è costituito da uiguri che vivono nella parte vecchia, ormai poco più che un piccolo ghetto, dove la modernizzazione del capitalismo socialista cinese stenta ad arrivare. In questa quasi metropoli dagli inverni gelidi e dalle estati torride, gli uiguri sono costretti a vivere come cittadini di seconda classe lontani da qualsivoglia leva del potere e da livelli di vita accettabili. Veri e propri stranieri in terra straniera. E questo stato di cose non fa che alimentare la loro frustrazione e la loro collera. Sentimenti che attraversano ogni strato della popolazione che ciclicamente organizza manifestazioni di protesta, la più grave delle quali, fino ad oggi, si era tenuta nel febbraio 1997 quando, nella cittadina di Ghulja, migliaia di uiguri avevano manifestato contro l’occupazione cinese. Le forze di polizia reagirono sparando e lasciando sul terreno decine di morti e centinaia di feriti. “Quella di Ghulja è la più nota delle esplosioni di collera del mio popolo”, mi aveva detto alcuni anni or sono Erik Alptekin, presidente del World Uyghur Congress, figlio di Yusef Alptekin uno degli eroi nazionali del Turkestan orientale e, con Rebiya Kadeer, uno dei principali esponenti politici del dissenso uiguro, “ma non è certo stata la sola. Prima e dopo il 1997 abbiamo avuto molte dimostrazioni che non cesseranno fino a quando la Cina Popolare non riconoscerà i nostri diritti”.
In un quadro già così teso e dove l’anno scorso diversi membri della resistenza erano stati uccisi o incarcerati con l’accusa di stare preparando attentati in occasione delle Olimpiadi di Pechino, ha ulteriormente esacerbato gli animi il progetto cinese, reso noto poche settimane or sono, di distruggere -con la scusa della modernizzazione- quello che resta della parte antica della cittadina di Kashgar, vero simbolo della cultura del Turkestan orientale. Già un migliaio di famiglie sono state obbligate ad abbandonare le case in cui vivevano da secoli e si calcola che almeno altri 13 mila nuclei famigliari saranno costretti a subire la medesima sorte entro breve tempo. E così si è arrivati alle manifestazioni, agli scontri e ai massacri di questi giorni.
Per concludere, veniamo adesso alle considerazioni sulle richieste che da alcune parti si rivolgono al governo cinese e al presidente Hu Jintao affinché tenga in considerazione, oltre al moloch dello sviluppo economico, anche i diritti umani della popolazione. Per quanto riguarda le principali figure istituzionali italiane, Giorgio Napolitano se l’è cavata con una generica esortazione a “… nuove esigenze in materia di diritti umani” che secondo lui “… lo stesso sviluppo e il progresso economico e sociale che si stanno realizzando in Cina” imporrebbero. Berlusconi non ha nemmeno affrontato il tema delle libertà civili preferendo affrontare i temi economici e ricordare che, “…in tre anni vogliamo diventare uno dei primi tre paesi che abbiano investimenti in Cina”. Per fortuna altri, sia singoli politici sia organizzazioni umanitarie, chiedono con forza al presente regime cinese di divenire più aperto, meno intollerante, più “liberale”.
Ma è sensata una richiesta del genere? A mio avviso è quanto di più irrealistico si possa fare. La storia pluridecennale del comunismo cinese è davanti agli occhi di quanti vogliano vedere (e non solo guardare). E dimostra, che dal punto di vista delle libertà civili, il regime non è riformabile. Passato, nei suoi 60 anni di vita, attraverso sincopati e radicali cambiamenti, convulsioni, crisi, vertiginosi ribaltoni (uno tra i tanti: l’affaire Lin Biao del settembre 1971), brusche inversioni di linea su una cosa il regime non ha mai cambiato idea: il ritenere indispensabile la dittatura del Partito Comunista. Che si trattasse del Grande Timoniere Mao, del raffinato “mandarino” Chou-En lai, del “destro” Liu Shao-chi, della allucinata Jiang Qing (Madame Mao) con la sua Banda dei Quattro, del sornione Deng Xiao-ping, nessuno di tutti coloro che si sono avvicendati nei palazzi del potere di Zhongnanhai, ha pensato di rinunciare al ferreo controllo leninista sulla società. Mai, nemmeno per un attimo. Con forse l’unica timida eccezione di Hu Yao-bang e Zhao Zyang che, non a caso, hanno fatto la fine che hanno fatto.
E ancor meno ci pensano Hu Jintao e gli attuali dirigenti i quali fanno risalire, aderendo al più ortodosso schema denghista, la crisi e la caduta dell’Unione Sovietica all’improvvido azzardo di Gorbaciov che volle legare le aperture economiche a quelle politiche. Al contrario Pechino ritiene che proprio nel momento in cui il sistema si apre al mercato (e dunque ai suoi rischi ed alle sue turbolenze), la presa del Partito sulla società deve rimanere ancor più salda e ferma. Considerando le cose dal loro punto di vista, giusto o sbagliato che sia, chiedere ai burocrati cinesi di aprirsi a forme effettive, ancorché graduali, di democrazia è come pretendere che commettano il proprio suicidio. Loro vogliano invece rimanere saldamente al potere guidando, non più la Cina contadina, frugale, austera vagheggiata da Mao, ma una nazione moderna, imperiale, spregiudicata, social-capitalista, “armoniosamente consumista” le cui redini siano saldamente in mano al Partito Comunista ed ai suoi governi. Una sorta di Singapore elevata all’ennesima potenza demografica.
Se queste considerazioni sono giuste, ed io ritengo proprio che lo siano, è una totale perdita di tempo sperare oggi in un vero dialogo con Pechino (il fallimento del tentativo del Dalai Lama costituisce in proposito un esempio lampante) e l’unica cosa sensata da fare è appoggiare concretamente, e in tutti i modi possibili, quanti all’interno e all’esterno del territorio della Repubblica Popolare Cinese lottano per un autentico cambiamento dello “stato di cose presente”. O quanto meno per creare solide basi affinché un tale mutamento possa avvenire in tempi non biblici. Come soleva ricordarci il buon vecchio Karl Marx, solo le “dure repliche della Storia” consentono agli uomini di poterla effettivamente cambiare.
Piero Verni
P.S.: apprendo adesso (21,30) che a Firenze è stato impedito a un piccolo gruppo di membri della Comunità Tibetana in Italia e della Associazione Italia-Tibet di dimostrare pacificamente contro la presenza di Hu Jintao in Italia. Tutti sono stati fermati e al momento sarebbero ancora nei locali della Questura fiorentina. Ovviamente a loro ed alle organizzazioni che rappresentano va tutta la mia solidarietà. Mi sembra anche che questo episodio dimostri fino in fondo quanto le autorità politiche italiane (ma non è che negli altri paesi “democratici” la situazione sia poi tanto diversa) siano intenzionate a fare pressioni su Pechino riguardo al tema dei diritti umani e delle libertà civili. Esasperando un po’ il discorso potremmo quasi dire che sembra invece essere il presidente cinese ad esportare all’estero i suoi metodi.
Piero Verni
(www.tibetnews.eu)
Alcuni link correlati:
http://www.valdelsa.net/det-cy44-it-EUR-31294-.htm
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=123896
http://firenze.repubblica.it/dettaglio/il-premier-cinese-hu-jintao-annulla-il-giro-turistico/1669048