di Bernardo Cervellera (AsiaNews).
28 settembre 2009
Roma (AsiaNews). Il 1° ottobre 2009 la Repubblica popolare cinese compie 60 anni dalla sua fondazione. Per la cultura dell’estremo oriente, compiere 60 anni riveste uno speciale significato: i sei decenni racchiudono un ciclo completo del calendario lunare e sono considerati il momento in cui un uomo raggiunge la piena maturità. Essi sono pure un tempo per riflettere sui risultati ottenuti e un augurio per nuove sfide future.
Noi ci auguriamo che anche i 60 anni della Cina popolare abbiano questo spirito, ma da ciò che vediamo, la festa rischia di essere usata solo per dare un’immagine grandiosa del potere di Pechino, nascondendo i problemi. Un po’ come per le Olimpiadi dello scorso anno, anche le celebrazioni in programma dal 1° ottobre vogliono mostrare al mondo la maturità raggiunta dalla Cina sotto la guida del Partito comunista cinese (Pcc), gli splendidi risultati economici, che la vedono come una superpotenza, il suo potere disteso ormai su tutta l’Asia e il mondo.
Mancano ormai pochi giorni al 1° ottobre ma, da quello che si sa, tutta la macchina pubblicitaria del Partito è all’opera per rendere indimenticabile l’avvenimento. Ma indimenticabile per chi? Le celebrazioni sembrano, infatti, puntare soprattutto sull’esibizione della forza militare del Partito, ma riguarda poco la gente. La cerimonia in piazza Tiananmen prevede un discorso del presidente Hu Jintao e una mastodontica parata militare che vuole dimostrare quanto avanzati siano gli armamenti e le tecnologie missilistiche nel Paese, divenuto un grande esportatore di armi all’estero, verso Paesi come il Sudan e il Myanmar.
Per il resto, la popolazione di Pechino non avrà nemmeno la possibilità di ammirare con senso patriottico tutta la parata. Come per le Olimpiadi l’anno scorso, i pechinesi sono “invitati” a restare in casa. Le persone residenti nell’area di Tiananmen e i viali vicini hanno ricevuto indicazioni di come comportarsi durante la cerimonia: “non aprire le finestre o i balconi che danno sulla Changan dajie [il viale che incrocia la piazza]”; “non stare la balcone per guardare la cerimonia”; “non invitare amici o altre persone” in quella giornata.
Per mostrare la sua potenza, il Pcc elimina sempre la popolazione, timoroso che qualcosa danneggi l’immagine tersa e perfetta che si vuol dare al mondo. Già nelle settimane prima dell’evento, la sicurezza è stata aumentata ovunque nel Paese. Per la capitale, si è stabilito che 7 province e regioni attorno a Pechino costruiscano un filtro per controllare l’entrata e l’uscita dalla città, prevenendo possibili dimostrazioni. Gli abitanti di Pechino hanno ricevuto il divieto di far volare nel cielo piccioni addomesticati, aquiloni, palloni. Un esercito di oltre 800 mila persone è stato reclutato per spiare il vicinato e lavorare in stretto contatto con la polizia per denunciare ogni irregolarità o crimine. Per evitare possibili rischi di incendi – e bombe molotov – le stazioni di servizio non devono servire benzina in recipienti di plastica o bottiglie. Fino a dopo il 1° ottobre è proibito perfino vendere coltelli, anche quelli da cucina, dopo che 2 uomini – in due diversi episodi – hanno accoltellato alcuni passanti.
La paranoia della sicurezza – accresciuta dalle minacce di scontri interetnici dopo le rivolte nel Xinjiang – domina ogni aspetto. Per questo il Pcc ha decretato che nel resto della Cina non vi siano altre parate, concentrando le forze dell’ordine nella capitale.
La paranoia della sicurezza è il sintomo di una malattia più profonda: il Partito non è amato dalla sua popolazione e se vi sono ancora 76 milioni di cinesi iscritti (cooptati) questo è solo per un motivo: trarre dall’appartenenza a questa oligarchia politica ed economica il massimo dei vantaggi. A Shanghai, Pechino, Guangzhou è facile incontrare giovani rampanti che ti confessano con candore il loro disprezzo per la leadership e per il Partito, ma che sono iscritti “per soldi”.
Il motivo per cui si entra nel Partito sta proprio nel fatto che ai membri viene dato un pacchetto di benefits da cui è escluso il resto della popolazione: un lavoro stabile, pensione, facili possibilità di viaggiare, un appartamento moderno e soprattutto una protezione legale e sociale se per caso hai dei guai con la giustizia. Ormai il Pcc, da avanguardia sociale, è divenuto oppressore; i suoi membri sono un’oligarchia che usa l’economia per mantenere il dominio politico e usa quest’ultimo per accrescere i suoi benefici economici.
Come tutto ciò sia avvenuto, fa parte di una lettura storica che in Cina nessuno osa fare con onestà almeno scientifica. Coloro che hanno osato si trovano agli arresti domiciliari o vengono estromessi dalle istituzioni.
L’ultimo in ordine di tempo è Xiao Jiansheng, 54 anni, dell’Hunan. Per 20 anni ha fatto ricerche sulla storia e la cultura cinese, producendo un volume di 450 pagine dal titolo Rivisitare la storia della Cina. Sebbene due anni fa l’Accademia delle Scienze sociali gli avesse dato l’ok per la pubblicazione, le autorità glielo hanno negato. Lui si è rivolto a Hong Kong e le autorità lo hanno diffidato dal farlo anche ad Hong Kong. Il motivo? Il libro critica la concezione del potere assoluto presente nella Cina tradizionale, che la leadership ha assunto in proprio, celebrando la supremazia del Partito comunista cinese. Il volume di Xiao è visto come un attentato anti-patriottico alle celebrazioni del 60° anniversario della Repubblica popolare.
La Cina grande e potente che vuole celebrare i suoi 60 anni il 1° ottobre non vuole fare i conti con la sua storia. Molti vorrebbero verificare quanto degli ideali del ’49 è stato realizzato e quanto costituisce un tradimento.
Zhu Houze, che prima della liberazione era un membro sotterraneo del Partito comunista a Guiyang, intervistato dal South China Morning Post (22/09/2009) ricorda così la fondazione della Repubblica salutata col discorso di Mao Zedong in piazza Tiananmen: “Pensavamo che saremmo stati subito liberi e avremmo cominciato a costruire un Paese nuovo, libero, democratico e prospero”. Negli anni ’80 Zhu è stato anche ministro del dipartimento di propaganda del Comitato centrale, ma ormai è uno dei “delusi” dagli sviluppi del Partito. Vale la pena ripercorrere alcune tappe dei “successi”, ma anche dei “fallimenti” di questi 60 anni.
Considerando soltanto gli aspetti economici e politici, si può dire che nei primi anni il Partito si guadagna la stima della popolazione: niente corruzione o divisioni come ai tempi di Chiang Kai-shek; inflazione bassissima; industria pesante ricostruita (su modello sovietico); agricoltura in abbondante produzione. Ma la caparbietà di Mao e la sua incompetenza economica portano al Grande Balzo in avanti (1958-1961) che causa la morte per fame di circa 50 milioni di persone. Le storie della gente parlano di contadini disperati nella ricerca di cibo; di gente che muore ai lati delle strade; di affamati che si cibano delle carni dei cadaveri. Per frenare le critiche del partito contro di lui (che gli vogliono togliere il potere), Mao lancia nel ’66 la Rivoluzione culturale, che dura fino alla sua morte, nel 1976. La Rivoluzione culturale, che viene ancora oggi ricordata come il periodo del “grande caos”, divide la società, distrugge famiglie, uccide milioni di persone, divise fra “giovani” e “vecchi” del Partito; Guardie rosse e esercito; genitori e figli.
Le aperture di Deng Xiaoping, alla fine degli anni ’70, considerate le idee brillante del “riformatore”, sono state in realtà una necessità. Per salvare la Cina dalla fame e rialzare le sorti di un’economia distrutta, Deng ha aperto il Paese agli investimenti stranieri e ha cominciato quelle riforme economiche che hanno portato la Cina agli splendori attuali.
Il problema con Deng è che le sue modernizzazioni (dell’esercito, della scienza, dell’agricoltura e dell’industria) mancano di una quinta: la democrazia. A causa di ciò, il Paese gode attualmente di uno status invidiabile dal punto di vista economico (in generale), ma continua ad essere un paria dal punto di vista dei diritti umani. Ancora dopo 30 anni dalle sue riforme, il Paese infatti non gode di libertà di stampa, di associazione, di parola, di religione; i poteri esecutivo, giudiziario, legislativo sono tutti sotto il controllo del Pcc.
La società cinese sacrificata al Partito
Bao Tong è un ex leader del Partito, caduto in disgrazia per aver simpatizzato con i giovani di Tiananmen nell’89. Ha subito per questo 7 anni di carcere e tuttora vive agli arresti domiciliari. In una lunga conversazione sulle modernizzazioni di Deng (in Radio Free Asia, 5/1/2009), egli fa notare che si deve proprio a Deng Xiaoping un cambiamento epocale rispetto a Mao. Pur con tutta la sua enfasi imperiale, il Grande timoniere aveva a cuore “il socialismo” come ideale del partito e del Paese. Invece Deng afferma che tutto in Cina deve servire a “mantenere la leadership del Partito”. Difendere il partito diviene la cosa più importante; difendere i diritti dei cittadini diviene un fatto secondario. In tal modo – Bao Tong spiega – l’esistenza del Pcc diviene lo stesso ideale a cui sacrificare la società cinese.
La Cina di Hu Jintao continua a favorire e migliorare l’economia in modo sorprendente: Pechino sembra aver perfino superato prima di tutti la grande crisi economica (se non si contano i circa 60 milioni di disoccupati). Ma la stabilità della società e l’egemonia del partito rimangono i punti fermi anche per la Quarta generazione della leadership.
I fallimenti e la corruzione
All’interno del Partito vi sono richieste di maggior democrazia e di riforme politiche. Lo stesso Zhu Houze, ora 78enne, insieme ad altri membri in pensione ha scritto varie volte alla leadership criticando la mancanza di controllo nei poteri del Partito, che genera la piaga della corruzione, domandando democrazia e una stampa libera. Ma non ha mai ricevuto alcuna risposta. “Dobbiamo superare – dice Zhu – la percezione ristretta del solo sviluppo economico del mercato e del mantenimento del partito unico. Dobbiamo iniziare la riforma del sistema politico”.
All’ultimo plenum del Comitato centrale (15-18 settembre 2009) si doveva parlare della lotta alla corruzione e della democrazia interna nel Pcc. Ma non è emersa alcuna indicazione concreta. In compenso, in uno dei tanti incontri per celebrare i 60 anni, Hu Jintao ha predicato sul suo slogan preferito: “l’armonia fra gruppi etnici e religiosi”, “rafforzare la solidarietà” “risolvere le contraddizioni”, “portare avanti la democrazia”. Ma ha subito precisato che non si tratta di “copiare i modelli occidentali”, bensì di attuare un sistema con “caratteristiche cinesi”, in cui è sempre salva la “supremazia del partito comunista”.
Eppure davanti agli occhi di tutti sono evidenti i grandi successi, ma anche i grandi fallimenti della Cina: una società in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell’economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione che arriva a sottrarre allo Stato fino al 3% del Prodotto interno lordo; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l’università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito. A causa di tutto ciò, ormai il Partito viene visto come sinonimo di “corruzione”.
Un fatto citato da Asia Times (23 settembre 2009) racconta che una bambina di 6 anni a Guangzhou, rispondendo alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” ha detto: “Voglio diventare un funzionario corrotto. La mamma dice sempre che un funzionario corrotto può avere molte, molte cose a casa sua”.
Gli “incidenti di massa” e la società civile
Diversi analisti si domandano se una Cina così, gigantesca nelle prestazioni economiche, ma zoppa nelle riforme politiche, potrà continuare, o se prima o poi sarà così vulnerabile da soccombere.
Già oggi i segni di inquietudine aumentano di pari passo con gli apparenti risultati economici.
Secondo le ultime stime apparse sulla stampa cinese, lo scorso anno vi sono stati oltre 100 mila “incidenti di massa” (almeno uno ogni 4-5 minuti), ossia proteste di centinaia o migliaia di persone che chiedono giustizia per i soprusi, o per paghe non pagate, o per avvelenamenti o sequestri di terreni. La cifra è superiore del 16% ai casi ufficialmente registrati dal Ministero della pubblica sicurezza nel 2006 (87 mila incidenti). Tali “incidenti” hanno anche portato a incendi delle sedi di partito, delle sedi di polizia, a scontri a fuoco fra polizia e manifestanti, a morti su entrambi i fronti.
Il Partito continua a predicare “la stabilità innanzi a tutto” ed è pronto – come nei giorni precedenti alla festa dei 60 anni – ad arrestare persone (circa 6500), disseminare carri armati, spie e poliziotti.
Per salvare la sua supremazia, il Partito continua a far morire il popolo, proprio quel “popolo” a cui appartiene la “Repubblica popolare cinese” fondata 60 anni fa.
Ma il tempo non passa invano. Il fatto più sorprendente è che in tutti questi decenni è cresciuto proprio “fra il popolo” una società civile sempre più attenta ai propri diritti. Fra loro vi sono attivisti, giornalisti, avvocati, consumatori, madri, impiegati, imprenditori, burocrati. Nella stretta non violenza essi denunciano le malefatte dei quadri del partito; si appellano per la salute dei loro figli avvelenati (come nel caso del latte alla melamina); difendono i loro diritti sulla terra e sulla proprietà; affermano il diritto alla libertà religiosa; esigono di poter votare per esprimere la loro preferenza per uno o l’altro leader.
Secondo Bao Tong, la riforma della società cinese sarà compiuta da questo “movimento per i diritti civili”. “Se la gente può difendere i loro diritti e viene dato loro ciò che è loro dovuto; se lo Stato si piega davanti all’opinione pubblica e i funzionari si mettono a servirla; se la gente può verificare il lavoro dei burocrati, che gettano via il loro cosiddetto ‘diritto divino’ di governare; allora c’è speranza per la Cina… Le speranze per la Cina si basano su un pacifico, pronto, persistente movimento per i diritti civili, che userà l’attivismo per attuare la Costituzione e salvare questa nazione e il suo popolo”. (Fine seconda parte).
Bernardo Cervellera, missionario del PIME, è responsabile dell’agenzia giornalistica AsiaNews.