di Piero Verni
Caro Francesco,
un tuo articolo (“Nonviolenza e autonomia per il Tibet, la ragionevole via del Dalai Lama”, pubblicato sul numero del 18 novembre di Notizie Radicali, il benemerito giornale telematico di Radicali Italiani) mi costringe a buttar giù un paio di pensierini sul problema del Tibet in concomitanza con la presenza del Dalai Lama in Italia. Erano anni che mi tenevo alla larga dal circo mediatico-politico che si scatena puntualmente in occasione delle (numerose) visite del Dalai Lama nell’ex Bel Paese. Fino ad ora non avevo mai voluto commentare il patetico spettacolo di politici dall’intermittente interesse per il Tibet, di cui conoscono poco o nulla, ma che si fanno vivi quando, grazie alla presenza del leader tibetano, si accendono i riflettori dell’informazione. Per poi defilarsi immediatamente non appena questi si spengono in attesa di ripresentarsi puntuali alla prossima occasione. Ti faccio un esempio concreto. Tra i tanti che si potrebbero fare. Essendo un assiduo ascoltatore della pregevole Radio Radicale (a proposito, auguri di cuore a Bordin e soci per il rinnovo della convenzione) ho avuto più volte l’occasione di sentire l’ineffabile Giovanna Melandri, appunto uno dei politici sempre in prima fila quando arriva il “Dalai” (lei lo chiama così), affermare che “nessuno” vuole l’indipendenza del Tibet. Allora mi chiedo, dove era la solerte deputata del PD quando solo poche settimane or sono tre giovani tibetani sono stati messi a morte a Lhasa proprio per aver chiesto l’indipendenza del Tibet? E, già che siamo in argomento, dove era quando il 9 novembre sono state eseguite le condanne capitali di nove uiguri che avevano manifestato per l’indipendenza del Turkestan Orientale? No, tanto per saperlo. Ora, la classe politica italiana (e forse non solo questa) è quella che è. Quindi le parole in libertà ascoltate non mi stupiscono più di tanto. Mi stupisce e mi addolora invece che una persona come te, Francesco, che da decenni segue con attenzione quanto avviene sul Tetto del Mondo rimanga impantanata in questa palude appiccicosa di affermazioni tanto retoriche quanto inutili di “solidarietà una tantum” nei confronti del Tibet. Mi dispiace e mi addolora che nel tuo articolo parli del Manifesto di Ventotene, di “un’autonomia da perseguire sull’esempio istituzionale dello statuto del Sud Tirolo-Alto Adige” e di altre cose del genere.
Ripeto, passi per i politici italiani che sanno di Tibet quanto io di fisica quantistica e con ogni probabilità non saprebbero nemmeno indicare su di una carta geografica i confini del Tibet indipendente (per non parlare di quelli del Turkestan orientale), ma tu dovresti ben sapere che non ha alcun senso proporre nella presente situazione cinese questi riferimenti. Ben comprendo che per il Partito Radicale il discorso che il Dalai Lama fa di una “significativa autonomia” rappresenti un aiuto nella battaglia che sta conducendo per la Patria Europea contro l’Europa delle Patrie. Ma, almeno tu, dovresti capire che ci dovrebbe essere un limite al piegare la situazione del Tibet ai propri interessi di bottega politica. Ribadisco, mi stupisce e mi addolora che anche una documentata intelligenza come la tua ritenga “ragionevole” la proposta del Dalai Lama.
Prima di entrare nel merito però, vorrei farti notare che questa proposta (per la prima volta presentata nella sede di Strasburgo del Parlamento Europeo il 15 giugno 1988) si basa su di una imprescindibile conditio sine qua non, vale a dire la disponibilità al dialogo dell’attuale gruppo dirigente cinese. E’ questo il punto centrale, molto più del fatto che il Dalai Lama chieda l’autonomia al posto dell’indipendenza. E si tratta proprio del collo di bottiglia nel quale da oltre 20 anni è rimasta intrappolata la proposta politica del Dalai Lama: la richiesta di dialogo a Pechino. Le burocrazie, i governi, i parlamentari, gli Obama del mondo, sono tutti felici della “ragionevolezza” del Dalai Lama così si possono mettere in pace la coscienza esprimendogli una generica solidarietà e, quando vanno a Pechino, rivolgere un altrettanto generico appello di non far cadere il “dialogo” con il Dalai Lama. E poi passano a discutere di affari. Nessuno che si ponga la domanda se questo “dialogo” sia possibile. Nessuno che si chieda se 21 anni di chiusure e insulti da parte cinese vogliano dire qualcosa in proposito. Nessuno che si interroghi se questa “ragionevolezza” del Dalai Lama abbia portato un sia pur minimo cambiamento positivo dello stato di cose presente, per quanti vivono in Tibet. Tra gli infiniti esempi che potrei fare su quanto sia disponibile al “dialogo” Pechino ti voglio citare, a parte le esecuzioni di cui sopra, i due ultimi recentissimi casi. Quello di Kunga Tseyang, il fotografo e scrittore tibetano condannato a cinque anni di carcere per aver scritto articoli in favore dell’indipendenza del Tibet (indipendenza, onorevole Melandri, non autonomia) e Kunchok Tsephel, condannato (in un processo a porte chiuse) a 15 anni di detenzione, per aver dato notizie sulla rivolta tibetana dell’anno scorso sul suo sito web. Ora non sono tanto ingenuo da pensare di chiederlo a quei politici, parlamentari e non, che nei giorni scorsi sgomitavano per farsi riprendere da telecamere e macchine fotografiche insieme al Dalai Lama, ma a te sì. A te la voglio fare questa domanda. Ti sembra veramente “ragionevole” la proposta del Dalai Lama? E ragionevole rispetto a cosa o a chi?
A mio modesto avviso è invece quanto di più irrealistico si possa ipotizzare. La storia pluridecennale del comunismo cinese è davanti agli occhi di quanti vogliano vedere (e non solo guardare) i fatti reali. E dimostra che, dal punto di vista delle libertà civili, il regime non è riformabile. Pur passato, nei suoi 60 anni di vita, attraverso sincopati cambiamenti, convulsioni, crisi, radicali ribaltoni (uno tra i tanti: l’affaire Lin Biao del settembre 1971), brusche inversioni di linea come nessun altro stato comunista al mondo, su una cosa però il regime non ha mai cambiato idea: nel ritenere indispensabile la dittatura del Partito Comunista. Che si trattasse del Grande Timoniere Mao, del raffinato “mandarino” Chou-En lai, del “destro” Liu Shao-chi, della allucinata Jiang Qing (Madame Mao) con la sua Banda dei Quattro, del sornione Deng Xiao-ping, nessuno di tutti coloro che si sono avvicendati nei palazzi del potere di Zhongnanhai, ha pensato di rinunciare al ferreo controllo leninista sulla società. Mai, nemmeno per un attimo. Con forse, negli anni ’80 del secolo scorso, l’unica timida eccezione di Hu Yao-bang e (parzialmente) di Zhao Zyang che, non a caso, hanno fatto la fine che hanno fatto.
E ancor meno ci pensano Hu Jintao e gli attuali dirigenti i quali fanno risalire, aderendo al più ortodosso schema denghista, la crisi e la caduta dell’Unione Sovietica all’improvvido azzardo di Gorbaciov che volle legare le aperture economiche a quelle politiche. Al contrario, Pechino ritiene che proprio nel momento in cui il sistema si apre al mercato (e dunque ai suoi rischi ed alle sue turbolenze), la presa del Partito sulla società deve rimanere ancor più salda e ferma. Considerando le cose dal loro punto di vista, chiedere ai burocrati cinesi di aprirsi a forme effettive, ancorché graduali, di democrazia è come pretendere che si suicidino. Loro vogliono invece rimanere saldamente al potere guidando, non più la Cina contadina, frugale, austera organizzata da Mao, ma una nazione moderna, imperiale, spregiudicata, social-capitalista, “armoniosamente consumista”, le cui redini però rimangano saldamente in mano al Partito Comunista, alla sua nomenklatura, ai suoi governi. Insomma quella Cina “forte e prospera” che secondo Obama (che, non dimentichiamolo è arrivato pochi giorni dopo le tre condanne a morte dei tibetani e le nove degli uiguri e di cui si è ben guardato di parlare) dovrebbe essere di beneficio per il mondo intero. Ma quello sul “divo” Obama è un discorso troppo lungo per affrontarlo in questa sede e non lo voglio nemmeno iniziare.
Tornando invece in tema, se queste considerazioni sono giuste, è una vera perdita di tempo sperare oggi in un vero dialogo con Pechino e l’unica cosa sensata da fare è appoggiare concretamente, e in tutti i modi possibili, quanti all’interno e all’esterno del territorio della Repubblica Popolare Cinese lottano per un autentico cambiamento. O quanto meno per creare solide basi affinché un tale cambiamento possa avvenire in tempi non biblici. In un lucido intervento scritto pochi giorni or sono in occasione delle celebrazioni per la caduta del Muro di Berlino (altra orgia di retorica e vanesi presenzialismi), il dissidente cinese Wei Jingsheng, ci ha ricordato che continua ad esistere un muro altrettanto nefasto di quello berlinese, anche se invisibile: il Muro di Pechino. “Possiamo far crollare un muro ancora in piedi in Cina. Perché la libertà appartiene al popolo”, ha scritto Wei esortando tutti coloro che abitano nel suo Paese ad abbattere quel Muro e tutti noi, che per fortuna non ci abitiamo, ad aiutare.
Quindi, caro Francesco, il nostro amato Dalai Lama più che perdere tempo ed energie nel ricercare un dialogo con Pechino, farebbe meglio ad impugnare simbolicamente il piccone della resistenza non violenta per iniziare a far cadere qualche mattone del Muro di Pechino. E’ quello che fece Gandhi in India. Perché sarebbe bene ricordare che per il Mahatma, il rigore sui metodi non violenti poteva poggiare unicamente sul rigore dei fini. E il fine unico di Gandhi, riguardo al quale non ebbe mai tentennamenti né scese mai a compromessi, era il “Purna Swaraj”, vale a dire la “completa indipendenza” dell’India. A mio modesto avviso il Dalai Lama sta perdendo in questi anni la preziosa occasione di usare la sua grande (e meritata) autorità morale per divenire il portavoce di tutti coloro, tibetani e non, che vogliono lottare per un effettivo cambiamento positivo della situazione politica cinese. Invece di concedere continue e inutili aperture di credito al regime dovrebbe denunciare al mondo i crimini di cui la Repubblica Popolare si è macchiata in questi 60 anni di vita. Crimini commessi non solo contro i popoli che ha assoggettato ma anche contro la sua stessa gente. E una posizione del genere sarebbe il miglior antidoto alle tentazioni di portare la contestazione a Pechino sul piano della lotta armata e del terrorismo. Se non sbaglio è questa la lezione che ci viene da Gandhi. Nell’India del suo tempo vi erano diverse posizioni favorevoli alla ribellione violenta contro il colonialismo britannico. Era ancora vivo nella memoria di tanti indiani il ricordo della sanguinosa insurrezione dei Cipoys avvenuta a metà dell’Ottocento e un grande leader come Chandra Bose propugnava apertamente la via della guerriglia. Se Gandhi si fosse piegato al compromesso, magari in nome della ricerca di un dialogo con Londra, forse il suo messaggio non violento non avrebbe avuto tanto successo tra le masse indiane. Invece il Mahatma si alzò in piedi e gridò agli inglesi, “Quit India” e “Purna Swaraj”. Così, avendo avuto il coraggio di non compromettere la radicalità dei fini, riuscì a far accettare al popolo indiano (che allora come oggi è tutt’altro che refrattario alla violenza) le tecniche e i valori della non violenza. E l’ipotesi di rivoluzione armata di Chandra Bose rimase assolutamente minoritaria.
Inoltre, Francesco, tornando alla situazione tibetana, vorrei portare la tua attenzione su di un elemento che ai miei occhi è di una straordinaria gravità. Ora, diciamo apertamente quello che sanno tutti. Che il Re è Nudo. Vale a dire che nessun tibetano vorrebbe di suo rinunciare alla richiesta di indipendenza. La maggioranza, stiamo ovviamente parlando dell’universo dei rifugiati, accetta la proposta dell’autonomia unicamente perché a proporla è il Dalai Lama. Se domani l’Oceano di Saggezza cambiasse idea e tornasse a lottare per l’indipendenza (come ha fatto fino al 1987), non si troverebbe più un “autonomista” nemmeno a cercarlo col lanternino. Quindi, spero che almeno in questo tu sia d’accordo, è solo il grande carisma del Dalai Lama che riesce a fare accettare a gran parte dei profughi il “sogno impossibile” della cosiddetta “Via di Mezzo”. Ma per inseguire questo “sogno impossibile” il Dalai Lama nega alla sua gente il “sogno possibile” di una lotta aperta, rigorosa, autenticamente non violenta -all’interno e all’esterno del Tibet- per collaborare, insieme a tutti coloro che hanno un contenzioso aperto con il regime, a far cadere il Muro di Pechino. Prova ad immaginarti per un attimo cosa potrebbe accadere se il Dalai Lama dovesse “lasciare il corpo” in una simile situazione. Il “sogno impossibile” non realizzato e il “sogno possibile” mai organizzato. Il popolo tibetano, sia dentro sia fuori il Tibet, lasciato solo con le frustrazioni, le disperazioni, le tragedie, le umiliazioni, i rancori accumulati in decenni di occupazione illegale del Paese delle Nevi e di esilio. Non so ai tuoi occhi, ma ai miei questo appare uno scenario da incubo. Un orizzonte fosco in cui veramente potrebbero scatenarsi i peggiori fantasmi che abitano nel profondo di ogni essere umano. Tibetani compresi. E allora sì che si correrebbe il rischio di vedere anche sul Tetto del Mondo, i deliri del terrorismo, della violenza etnica, della caccia all’uomo indiscriminata. Quei deliri che purtroppo ben conosciamo per averli visti in così tante parti di questo nostro esausto Pianeta.
In questi giorni parlavo con una cara amica (che anche tu conosci bene) impegnata da anni come pochi altri ad aiutare il popolo tibetano all’interno della associazione italiana di sostegno al Tibet di più antica formazione, e lei mi esprimeva i suoi profondi dubbi che il Dalai Lama, ormai prigioniero di questo suo ruolo, possa mutare rotta nel senso da me (e non solo da me, ovviamente) auspicato. Io, che mi attengo al principio gramsciano del pessimismo della ragione corroborato dall’ottimismo della volontà (o, se vuoi, a quello del Dalai Lama di: “prepararsi al peggio e sperare nel meglio”) non ho definitivamente abbandonato tutte le speranze. Vedremo nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi quello che accadrà.
Infine un’ultima annotazione. Concludi il tuo articolo evocando la speranza che quello che a me appare come il “sogno impossibile” del Dalai Lama possa avere successo, ricordando la caduta del Muro di Berlino. Vorrei però rammentarti, caro Francesco, che quel Muro cadde (seppellendo sotto di sé l’Unione Sovietica e il suo sistema di stati satellite) perché Mosca era da anni sotto attacco da parte di un variegato ventaglio di forze. Dagli USA reganiani a Solidarnosch, dalla guerriglia afghana alla predicazione del Papa e ad altre ancora. Il Muro di Pechino non cadrà da solo. Avrà anche lui bisogno della sua dose di picconate. Forse nel suo caso molto più interne che esterne. Blandire Pechino, sperare nella buona volontà dei suoi dirigenti, tacere sull’aggressività delle sue politiche economiche, sul suo sciovinismo e sulla sua “volontà di potenza”, puntella quel Muro che invece dovrebbe essere abbattuto. Non solo nell’interesse di chi è costretto a vivere alla sua ombra ma di noi tutti, cittadini del mondo. Come soleva ricordare il buon vecchio Karl Marx, solo le “dure repliche della Storia” consentono agli uomini di poterla effettivamente cambiare.
Un caro saluto, Francesco, pur nella nostra differenza di opinioni,
Piero Verni
19 novembre 2009