di Wei Jingsheng
Washington, 23 novembre 2009 (AsiaNews). Di tutte le nazioni visitate da Barack Obama durante il suo tour asiatico, la Cina è quella che ha ricevuto più attenzione. Nel rapporto fra Cina e Stati Uniti, infatti, esistono molti problemi che avrebbero dovuto dominare l’incontro fra il presidente americano e quello cinese. Il commercio e i diritti umani sarebbero dovute essere le questioni principali a cui la popolazione doveva prestare attenzione. Molti amici, inoltre, si sarebbero anche accorti che lo scontro commerciale fra i due Paesi è in crescita progressiva. Sono anni, ormai, che gli Stati Uniti avvertono la Cina sulla necessità di rivalutare la loro moneta, lo yuan, per fermare le manipolazioni di valuta che producono il surplus commerciale favorevole a Pechino. Eppure, il governo cinese non ha ascoltato le richieste e non ha cambiato molto. Usando il potere del governo, i comunisti cinesi hanno tenuto in maniera forzata lo yuan svalutato, producendo così un prezzo iper-competitivo per i beni di produzione cinese che non rispondono ai canoni classici dell’economia di mercato. Questa svalutazione ha creato il più grande blocco del commercio internazionale mai avvenuto nella storia. Tale modo di comportarsi non solo ha colpito l’economia americana, ma ha anche provocato danni ingenti alla stessa economia cinese. Le persone sanno bene che il risultato di questo modo di fare è la crescita della disoccupazione e l’aumento del debito americano. Eppure, quando parliamo del modo in cui l’economia cinese colpisce tutti, molti non capiscono.
La mentalità generale della società cinese è: “Se ho colpito gli altri, devo aver fatto un buon contratto. Come posso, nello stesso momento, colpire anche me stesso?”. Un vecchio proverbio cinese recita: “Danneggiare gli altri non va bene per noi stessi”. E la riduzione forzata della valuta di scambio operata dal governo cinese è proprio il tipo di condotta che non beneficia neanche l’autore. Ancora più importante il fatto che chi guadagna da questo modo di fare non è l’intera popolazione cinese. I salari della maggioranza degli stipendiati sono obbligati a rimanere bassi a causa di questo basso tasso di scambio.
I beni prodotti in Cina sono venduti sul mercato internazionale ad un prezzo che è soltanto leggermente ridotto: gli enormi profitti che derivano dalla manifattura e dalla vendita vanno in tasca a una minoranza di capitalisti, e questo produce un’enorme disparità fra i ricchi e i poveri in Cina. Questa non solo danneggia i poveri, ma colpisce anche gli standard morali e la sicurezza interna, provocando una crisi sociale di larga scala. È un fatto che persino le persone benestanti vivano in Cina con un costante stato d’ansia: nonostante la loro estrema stravaganza e amore del lusso, i loro non sono giorni facili.
Un altro dei risultati della disparità fra ricchi e poveri è che il mercato interno cinese è molto piccolo. La maggior parte della produzione è composta da beni destinati a una classe media di consumatori, e una buona fetta di questa torta non è in Cina. Questo significa che la sopravvivenza dell’industria manifatturiera dipende per la maggior parte dal mercato internazionale: è, dunque, sotto il controllo degli altri. Di conseguenza, ogni segnale di disturbo del mercato internazionale provoca danni all’intera industria. Ora i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati costretti ad adottare una sorta di protezionismo commerciale, per reagire alla forzata politica di scambio di valuta ordinata da Pechino.
Ciò impone uno stop o una riduzione alla produzione, e quindi colpisce l’intera economia. Quando l’America ha iniziato a ridurre le quote di importazione di acciaio dalla Cina, un gruppo di industriali cinesi che viveva grazie al commercio del metallo e del carbone è scomparso dalla lista dei benestanti. E un enorme numero di persone ha perso il proprio lavoro. Questo deriva direttamente dalla svalutazione dello yuan, dal “produrre problemi per gli altri”. Bisogna poi parlare della nota mancanza di innovazione e di qualità delle industrie cinesi. Questi prodotti di scarsa qualità hanno invaso il mondo e hanno reso ben noto il marchio “made in China”. La bassa qualità di questo marchio deriva dal voler mantenere basso lo yuan, per poter poi colpire il mercato con prezzi ridotti.
Il furto e il plagio costano molto meno dell’innovazione, così come la bassa qualità non costa quasi nulla. Questo orientamento di investimento è viziato e ha danneggiato non soltanto la reputazione del “made in China” ma anche il potenziale, ulteriore sviluppo dell’economia interna. Una piccola minoranza di benestanti distrugge l’interesse della maggioranza. Tutte le risorse ereditate dai nostri avi vengono vendute sulla pelle delle generazioni future, e non soltanto dell’inquinamento ambientale. Questa situazione è causata per la maggior parte dall’orientamento dato all’economia delle esportazioni, e – ancora – dalla svalutazione dello yuan.
Il prerequisito per questo monopolio economico e politico è la disastrosa situazione dei diritti umani in Cina. Per mantenere il potere assoluto, Pechino ha bisogno di schiacciare i diritti della propria popolazione. Poco tempo fa, un coraggioso cittadino di Pechino chiamato Li Jinping è andato all’Ufficio di pubblica sicurezza per chiedere di poter manifestare contro la visita del presidente Obama in Cina. A un primo sguardo, potrebbe sembrare che Li sia un “giovane patriota”. Ma questo non è vero: Li voleva protestare contro il fatto che il presidente americano avrebbe parlato soltanto di commercio e non di diritti umani.
Li rappresenta il punto di vista di molti cinesi. Parlare soltanto di commercio invece che di diritti umani provocherà una dittatura simile a quella dell’era nazista. Dobbiamo capire che la libertà di espressione e di stampa sono direttamente collegati al commercio, e sono fra le questioni relative all’economia. Nell’ambito dell’accordo mondiale sul commercio c’è un punto che chiede alle nazioni che ne fanno parte di garantire libertà di espressione, senza la quale non si può garantire la libertà commerciale.
Monopolizzare l’informazione è una necessità fondamentale per produrre un monopolio economico e politico. Vorrei che la protesta del cittadino di Pechino di nome Li Jinping avesse l’attenzione che merita da parte dei governi cinese ed americano. Noi non difendiamo soltanto i diritti umani: senza di loro, infatti, non si possono avere le condizioni per un commercio libero e per una politica democratica.
* Chi è Wei Jingshen
Wei ha una lunga storia nel campo dei diritti umani e della democrazia in Cina. Il 5 aprile 1976, a 26 anni, partecipa al primo moto antigovernativo che scoppia in piazza Tiananmen. Due anni dopo appare, nei pressi di uno dei principali incroci della capitale, il Muro della Democrazia: un angolo di muro dove sono affissi i dazibao della contestazione democratica. Il 5 dicembre 1978 affigge il testo che lo renderà celebre – “La Quinta Modernizzazione” – dove sviluppa l’idea che il progresso economico del paese (le “quattro modernizzazioni” esaltate dal regime comunista) deve passare attraverso la democratizzazione del sistema, senza la quale il popolo non avrà alcun beneficio. Wei denuncia la detenzione per motivi politici, la miseria di una parte della popolazione, le origini politiche della delinquenza giovanile, la vendita di bambini per le strade di Pechino. Dal ’79 al ’93 è tenuto in prigione per volere di Deng Xiaoping. Dopo il rilascio, il primo aprile 1994 viene fatto sparire insieme alla sua compagna. Il 13 dicembre 1995, un anno e mezzo dopo il nuovo arresto, Wei riappare davanti alla Corte popolare di Pechino e condannato a 14 anni di prigione per “aver complottato contro il governo”. Il 16 novembre 1997 è stato scarcerato dalle autorità cinesi dopo fortissime pressioni da parte della comunità internazionali e mandato all’estero per “cure”, ma in realtà condannato all’esilio. Al momento vive negli Stati Uniti ed è il presidente del Comitato oltreoceano del Movimento “Democratic China”.