(Corriere della Sera – 14 gennaio 2010)La grande muraglia della censura cinese su Internet non cadrà, come il muro di Berlino, per la decisione di Google di eliminare ogni filtro politico dai suoi siti nel Paese asiatico. Avendo passato tutto il 2009 a inasprire la morsa della sorveglianza, Pechino difficilmente si farà imporre un’inversione di rotta da una compagnia americana. Google lo sa bene e, infatti, ha già detto di essere pronta a lasciare la Cina. La rinuncia al mercato più grande del mondo (per numero di utenti) è, per la società, una scelta molto pesante. Ma è la scelta giusta. Una scelta coraggiosa che Google è la prima società occidentale a compiere. Ma, forse, anche una scelta obbligata.
Quattro anni fa, quando accettò di sottostare ai vincoli della censura, Google si disse convinta che la sua semplice presenza in Cina avrebbe spinto il mercato e lo stesso governo del Paese asiatico sul sentiero di una graduale apertura. Invece è successo esattamente il contrario. E l’attacco informatico partito dalla Cina che ha colpito il gruppo di Mountain View e altre 34 aziende ha fatto traboccare il vaso. Il business di Google si basa sulla tecnologia, ma anche sulla credibilità: quella dell’azienda “etica” che ha inserito l’impegno a “fare cose buone per il mondo” addirittura nel prospetto per la quotazione in Borsa, nel 2004. E anche quella dell’impresa capace di garantire la sicurezza delle informazioni che le vengono affidate dagli utenti.
Finché l’esercito creato per sorvegliare la Rete – i 280 mila tecnici della polizia informatica cinese – filtrava i contenuti di Internet, vantandosi di aver eliminato 136 mila siti non autorizzati, Google doveva vedersela soprattutto con chi, avendo creduto nella sua diversità incarnata dal motto “don’t be evil” (non fare mai del male), aveva alla fine scoperto che anche questa società stava diventando una multinazionale come le altre, guidata dall’ambizione e dal profitto.
Ma ora che viene attaccata a casa sua, negli Stati Uniti, tutto cambia: Google non deve più difendere solo i suoi valori morali, ma la sicurezza di tutto il business, a partire dal sistema di inviolabilità della posta elettronica. Insieme alla tecnologia del suo motore di ricerca, è questo il cuore del suo patrimonio aziendale. Presente e futuro: Google ha scommesso tutto sulla mobilità del “software” e sul “cloud computing”. Ma per convincere gli utenti a non immagazzinare più i loro dati nel computer di casa, affidandoli invece a una “nuvola” digitale, ne deve garantire la tenuta stagna.
Per questo l’attentato su larga scala di dicembre è un fatto gravissimo, con implicazioni economiche, di sicurezza e anche politiche che per ora possiamo solo intuire. Certo, accusare direttamente Pechino sarebbe imprudente, ma l’intrusione in siti e indirizzi elettronici di dissidenti cinesi è un indizio pesante.
Un duro risveglio per Google, per gli utopisti della rete convinti delle proprietà salvifiche di tecnologia e sistemi “open source”, ma anche per i governi che fin qui hanno considerato la Cina solo come un partner, sottovalutando i segnali di aggressività venuti da Pechino dopo l’esplosione di una crisi finanziaria grave per tutti, ma che ha reso l’Asia più forte nel confronto con l’Occidente. Chiedendo spiegazioni al governo cinese, Washington ora mostra di voler reagire. L’Europa, invece, continua a tacere.
Corriere della Sera – 14 gennaio 2010