(da AsiaNews.it)Il governo cinese guidato da Hu Jintao ha indurito in maniera significativa la propria politica rispetto al Tibet, in un apparente tentativo di assicurare in quella sensibile provincia il rispetto del proverbiale detto del Partito comunista cinese: “Lungo regno e stabilità perenne”.
A guidare la Regione autonoma del Tibet (Rat) sono stati nominati nuovi dirigenti di provata fede comunista. Nel frattempo, sono stati stanziati dei fondi senza precedenti per aiutare i 6,5 milioni di tibetani che vivono nella regione, così come nelle province confinanti del Sichuan, Gansu e Qinghai. Ma il fulcro dei nuovi progetti di infrastrutture rimane comunque quello di aiutare la migrazione dei cinesi di etnia han. Queste misure multifunzionali sembrano ideate per evitare possibili scontri quando il 75enne Dalai Lama scomparirà dalla scena. Nel frattempo, le prospettive di riaprire un canale di dialogo fra Pechino e il leader spirituale in esilio sono divenute più esili che mai.
Sotto il diktat presidenziale del “percorrere la via dello sviluppo con le caratteristiche cinesi e il profumo tibetano”, sono stati definiti altri input per lo sviluppo economico dell’area: fra questi sono previsti progetti di infrastrutture, turismo, industria mineraria e manifatturiera. Non sorprende il fatto che, all’inizio dell’anno, alla Borsa di Shanghai sia cresciuto velocemente il valore delle azioni di quella dozzina di aziende collegate con i settori dell’edilizia, dei trasporti e delle miniere del Tibet.
I tibetani in esilio e gli esperti occidentali della regione, tuttavia, hanno reagito in maniera negativa al presunto “nuovo corso” deciso da Pechino per la povera regione. I rappresentanti del Dalai Lama hanno sottolineato che gli investimenti cinesi nel Rat andranno in prevalenza a beneficio di industriali e operai specializzati provenienti da altre regioni, e soprattutto che il nuovo e modernissimo sistema di trasporti aiuterà più che altro la “cinesizzazione” del Tibet tramite la migrazione dei cinesi di etnia han nella regione.
Commentando la nuova politica tibetana del governo di Hu Jintao, Robert Barnett (tibetologo dell’ americana Columbia University) ha sottolineato che “ora la Cina sembra bloccata nel conflitto con il Tibet. Anche se ai leader politici di Pechino manca la capacità politica di ammettere che le politiche esistenti potrebbero aver fallito, ora credono che i tibetani saranno vinti con un miscuglio composto dalla repressione e da una modernizzazione rinforzata e culturalmente corrosiva che stimola la migrazione”.
Il presidente Hu e i suoi consiglieri non hanno chiarito che tipo di “esperti” saranno inviati in Tibet. Sull’onda delle violenze etniche che lo scorso anno sono esplose nella regione e nel Xinjiang, tuttavia, nelle caserme delle due regioni sono stati inviati ancora più soldati e ufficiali della Polizia armata del Popolo, un corpo paramilitare. E’ significativo inoltre che lo scorso mese il comandante in capo di tutte le forze militari cinesi (lo stesso Hu Jintao) abbia nominato comandante della Polizia nazionale – che si stima abbia circa 1 milione di membri – un ex leader della Polizia tibetana, il tenente-generale Wang Jianping. Gli elementi “anti-cinesi” del Tibet sono per natura pacifisti e non violenti, in particolare se paragonati con i cosiddetti separatisti del Xinjiang. Eppure le autorità cinesi hanno trovato una resistenza raddoppiata, mentre stringono la morsa contro i monaci e gli altri potenziali “creatori di problemi” del Rat e dei distretti tibetani delle province confinanti. Pechino ha lanciato una controversa campagna per registrare le “qualifiche” e il resto del materiale di background di tutti i Buddha viventi, dei monaci e delle monache che vivono in Tibet.
Allo stesso tempo, il presidente Hu Jintao (che è il membro del Politburo incaricato degli affari delle minoranze etniche) ha rinforzato la rete della sicurezza nazionale nella Regione autonoma dello Xinjiang. Per mantenere l’ordine e lo stato di diritto, il governo provinciale prevede di essere costretto a spendere nel 2010 circa 2,89 miliardi di yuan (pari a 289 milioni di euro). Questo dato rappresenta un aumento dell’87,9 % rispetto all’investimento stanziato nel 2009. Il leader della regione settentrionale Nur Bekri, membro della Lega comunista giovanile di Hu, ha detto la scorsa settimana che “per lo Xinjiang rimane una priorità rafforzare la sicurezza sociale e rispondere con pugno di acciaio alle tre minacce malvagie del terrorismo, separatismo ed estremismo religioso”. La decisione di indurire ancora di più la situazione nelle due province, presa dai massimi leader comunisti, ha reso ancora più improbabile la sostituzione in tempi brevi dei due Segretari comunisti locali, gli ultra-conservatori Zhang Qingli e Wang Lequn. E questo nonostante i media di Hong Kong abbiano più volte riportato che il 65enne Wang, che è stato assegnato allo Xinjiang nei primi anni ’90, sarebbe stato presto trasferito in una località meno “sensibile”.
Tuttavia, subito dopo la cancellazione dei siti e delle Organizzazioni liberali, le voci della ragione e della moderazione sono state messe ai margini. Inoltre il nazionalismo, che include una crescente intolleranza nei confronti di culture ritenute aliene come quelle dei tibetani e degli uiguri, sembra aumentare fra i giovani cinesi han. Così come gli attacchi all’Occidente, ritenuto il protettore dei movimenti indipendentisti della Cina. Gli ultimi strali contro tibetani e uiguri, definiti “irriconoscenti e anti-patriottici”, si possono leggere nelle chat dei siti internet cinesi più popolari. Dato il blackout delle notizie imposto su Tibet e Xinjiang, sembra che a breve termine le nuove e più dure politiche decise dal Politburo siano quanto meno riuscite a ottenere il risultato di sconfiggere tutte le manifestazioni e le rimostranze. Sul lungo periodo, tuttavia, la soppressione violenta e la “cinesizzazione” non riusciranno a produrre quel tipo di comprensione e senso di cameratismo fra le diverse nazionalità che sono necessarie per ottenere una vera stabilità a lungo termine e la prosperità.
* Willy Wo-lap Lam è un profondo conoscitore della Cina residente a Hong Kong, con più di 25 anni di esperienza di analisi e scrittura delle politiche cinesi, degli affari esteri, di quelli militari e delle relazioni fra Cina e Taiwan. Ha vissuto a Pechino dal 1986 al 1989 e ha ricoperto alti incarichi editoriali all’interno di diversi media regionali e internazionali fra cui Asiaweek, il South China Morning Post e l’ufficio Asia-Pacifico della Cnn. Il dottor Lam ha scritto cinque libri sulla Cina, fra cui “La Cina dopo Deng Xiaoping” e “L’era di Jiang Zemin”