Obama riceve il Dalai Lama. Di nascosto

di Marcello Foa
(Il Giornale – venerdì 19 febbraio 2010)
Pechino temeva un gestaccio, è arrivato un gestino. Piccolo piccolo e, soprattutto, quasi invisibile. Obama ha ricevuto il Dalai Lama, ma quasi di nascosto. Il leader dei buddisti tibetani è arrivato alla Casa Bianca da un’entrata secondaria, lontano da fotografi e telecamere. Ed è stato accolto nella Sala delle Mappe, anziché nello studio Ovale. Ovvero: nel salottino del tè, anziché nel salone delle grandi occasioni. Il primo viene usato dal presidente degli Stati Uniti per incontri con leader spirituali e della società civile; il secondo per quello con capi di Stato e di governo. Dunque Obama ha voluto dimostrare a Pechino di considerare il Dalai Lama un leader religioso, uno stimato Nobel della Pace, che incontra un altro Nobel della Pace per condividere l’auspicio di un mondo migliore.
Un summit poco più che di circostanza, al termine del quale, Obama, di solito loquace e sempre felice di farsi fotografare, non è nemmeno apparso di fronte ai giornalisti. La Casa Bianca, dove ogni giorno gli spin doctor si ingegnano per “vendere” ai media il loro presidente seguendo le regole della politica spettacolo, ieri per qualche ora è sembrata il Cremlino dei tempi di Breznev. Un maniero dove tutto avviene in segreto, lontano dalle telecamere. L’ufficio stampa ha promesso una sola foto dell’evento, ma senza la tradizionale stretta di mano, e una sola dichiarazione. Questa: il governo degli Stati Uniti esprime «forte sostegno» sull’identità tibetana e dei diritti umani, accompagnato però dalla sollecitazione a mantenere il dialogo con la Cina «per risolvere le loro differenze».Il leader buddista è stato al gioco. Pur dicendosi «felice» dell’incontro e certo del sostegno del presidente, ha precisato che il colloquio è stato centrato sulla necessità di promuovere la pace, i valori umani e l’armonia religiosa e ha espresso la sua ammirazione per gli Stati Uniti come paladini della «democrazia, della libertà e dei valori umani». Ma il portavoce della Casa Bianca, Gibbs, ha sottolineato che non è stata messa in discussione l’unità territoriale della Cina.

Insomma, poca cosa. L’esito è chiaro: il Dalai Lama ha dimostrato al mondo che gli Usa non lo hanno abbandonato, Obama che non si è rimangiato la parola, ma l’unico grande vincitore è Pechino, che pure ha protestato veementemente, come da copione, ma le cui furibonde pressioni degli ultimi giorni in realtà hanno avuto effetto. «Il colloquio alla Casa Bianca viola le norme internazionali e la ribadita accettazione da parte del governo Usa che il Tibet è parte della Cina», ha tuonato il ministro degli Esteri cinese, Zhaoxu. Ma un Obama che nasconde il Dalai Lama, costringendolo addirittura a uscire dalla porta di servizio, vicino ai sacchi della spazzatura, dà l’impressione di chinare la testa.

La domanda cruciale è: per quale ragione? E, soprattutto è davvero una retromarcia nell’ambito della guerra strategica lanciata contro la Cina? La decisione di ricevere il leader tibetano non è isolata ma rientra in un’escalation, innescata dalla diatriba su Google, proseguita con il lancio di un programma per rendere Internet accessibile a tutti i cittadini del mondo e dopo aver venduto armamenti sofisticati a Taiwan.
È stata Washington a sfidare Pechino. Possibile che si sia ricreduta? Delle due l’una: o la Cina ha palesato al governo americano argomentazioni che questi non può ignorare; dunque possiede uno strumento fenomenale per sottrarsi al ricatto statunitense. Oppure la retromarcia statunitense di ieri è tattica e deve essere letta non come una resa, ma come una pausa, nell’ambito di una strategia di lungo periodo.
Ieri il Dalai Lama e Obama hanno concordato sulla importanza di un rapporto «positivo e di cooperazione» tra Stati Uniti e Cina. Una frase significativa, ma non particolarmente originale. Mai, nelle ultime settimane, gli Usa hanno messo in dubbio i rapporti bilaterali. La guerra è asimmetrica, non convenzionale, indiretta. Si gioca su più scacchieri. È invisibile e non dichiarata. Richiede destrezza e costanza. Questo è il punto: Obama e i suoi uomini sono in grado di condurre una sfida tanto delicata contro un Paese che finanzia buona parte del loro gigantesco debito?

Marcello Foa
(Il Giornale – venerdì 19 febbraio 2010)