di Lucia Pozzi
(Il Messaggero.it, 14 aprile 2010)
Il treno dello sviluppo cinese ha agganciato anche questa terra dimenticata da Dio con la ferrovia superveloce che da Xining porta in circa 25 ore di treno a Lahasa. Un percorso di speranza, per molti. Un percorso di avvio di nuove attività, risorse, forze ficiche e materiali in Tibet per il governo centrale. Un percorso, comunque, pieno di incognite pensando a come potranno essere il volto e l’anima del Tibet tra qualche anno.
L’ho fatto quel percorso, con un gruppo di giornalisti italiani invitati in Tibet dopo le rivolte (e i morti) del marzo 2008. Abbiamo passato alcune ore a Xining, vi abbiamo cenato con l’ottima carne di yak, poi abbiamo preso il treno, tra i saluti cerimoniosi dei dirigenti locali di partito. Prima avevamo attraversato la provincia in bus, avevamo visitato il famoso monastero di Kumbum. Certamente interessante, ma che delusione per chi volesse trovarvi un coinvolgimento spirituale, il trasporto del luogo sacro verso la preghiera: i monaci avevano paura a dire qualunque cosa, temendo di essere poi perseguitati; e i visitatori-turisti arrivavano dappertutto come cavallette, tra queste mura già depredate della loro più intima identità.
La sensazione è stata comune: un’intima tristezza. Quel che ci aspettavamo non c’era. In compenso, l’omologazione allo standard cinese era evidente, dal palazzo appena ricostruito all’orgoglio nazionale palpabile nei nostri accompagnatori che ci salutavano alla partenza del treno per Lahasa.