Così ricordo il Qinghai devastato dal terremoto

di Lucia Pozzi

(Il Messaggero.it, 14 aprile 2010)

 

Ora bisogna pensare ai soccorsi. Mandare aiuti. Il numero delle vittime sale, e continuerà a saliere nelle prossime ore. Dopo il Sichuan, sconvolto dal terremoto alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, stanotte (7,49 ora locale) è toccato alla provincia del Qinghai essere violentata dalla brutalità di un sisma pari a 7.1 gradi della scala Mercalli, a due settimane dall’apertura dell’expo di Shanghai.Jiegu l’epicentro, a 800 chilometri dalla capitale Xining. E’ una zona di montagna, abitata per lo più da tibetani. Una realtà difficile, povera, lontana anni luce dagli effetti speciali della seducente Shanghai e dallo sviluppo roboante dell’iperproduttiva Pechino. No, qui siamo nella pancia più interna della Cina, tra lo Xinjiang e il Tibet, tutt’altra cosa rispetto alle coste, qui vivono soprattutto contadini e pastori.

Il treno dello sviluppo cinese ha agganciato anche questa terra dimenticata da Dio con la ferrovia superveloce che da Xining porta in circa 25 ore di treno a Lahasa. Un percorso di speranza, per molti. Un percorso di avvio di nuove attività, risorse, forze ficiche e materiali in Tibet per il governo centrale. Un percorso, comunque, pieno di incognite pensando a come potranno essere il volto e l’anima del Tibet tra qualche anno.

L’ho fatto quel percorso, con un gruppo di giornalisti italiani invitati in Tibet dopo le rivolte (e i morti) del marzo 2008. Abbiamo passato alcune ore a Xining, vi abbiamo cenato con l’ottima carne di yak, poi abbiamo preso il treno, tra i saluti cerimoniosi dei dirigenti locali di partito. Prima avevamo attraversato la provincia in bus, avevamo visitato il famoso monastero di Kumbum. Certamente interessante, ma che delusione per chi volesse trovarvi un coinvolgimento spirituale, il trasporto del luogo sacro verso la preghiera: i monaci avevano paura a dire qualunque cosa, temendo di essere poi perseguitati; e i visitatori-turisti arrivavano dappertutto come cavallette, tra queste mura già depredate della loro più intima identità.

La sensazione è stata comune: un’intima tristezza. Quel che ci aspettavamo non c’era. In compenso, l’omologazione allo standard cinese era evidente, dal palazzo appena ricostruito all’orgoglio nazionale palpabile nei nostri accompagnatori che ci salutavano alla partenza del treno per Lahasa.

Ora quella terra è devastata, distrutta. Già si trovano in internet le immagini della distruzione, del dolore. E il ricordo lascia spazio alla compassione.
Lucia Pozzi