Viaggio nella regione di Yushu tra i fantasmi del sisma censurato

Il disastro di due settimane fa in Cina rischia di trasformarsi in terremoto politico. Il regime continua a ignorare la tragedia. Alcuni monaci buddisti accorsi per aiutare la popolazione sono stati cacciati dai funzionari del partito comunista. Migliaia di superstiti scavano ancora

di GIAMPAOLO VISETTI

(Repubblica, 28 aprile 2010)

YEGU – Il terremoto che il 14 aprile ha sconvolto la contea di Yushu, nella regione tibetana del Qinghai, rischia di trasformarsi in un sisma politico per l’intera Cina. Migliaia di monaci buddisti, accorsi da tutte le zone del Tibet storico per aiutare la popolazione, sono stati cacciati dai funzionari del partito comunista. Cinque posti di blocco, lungo la strada di 820 chilometri che collega lo Yushu al capoluogo, impediscono a giornalisti e religiosi di raggiungere l’epicentro delle scosse, pressoché isolato. Il presidente della conferenza consultiva del popolo, Jia Qinglin, ha dichiarato che “forze ostili d’oltremare tentano di sabotare gli sforzi di soccorso”. Decine di villaggi e di quartieri cittadini, dopo due settimane, non sono ancora stati raggiunti dai soccorritori. Lo scrittore Tra Gyal, intellettuale di riferimento tra i tibetani del Qinghai, è stato arrestato a Xining dopo aver scritto una lettera aperta in cui denunciava le falsificazioni delle autorità.

Le stime delle vittime non concordano. Per giorni si è parlato di poche centinaia di cadaveri. Secondo il governo di Pechino il terremoto ha infine causato 2223 morti, 90 scomparsi, 12 mila feriti e circa 100 mila senzatetto. Il conteggio dei monaci, confermato dalle Ong internazionali presenti sul posto, alza il numero dei morti identificati a oltre seimila. I sopravvissuti affermano che la cifra reale oscilla tra i 15 i 20 mila morti. Dopo giorni di funerali e di silenzio, centinaia di monaci hanno protestato contro la falsità dei dati ufficiali. Gyegu, la città santa dei tibetani, è rasa al suolo. Dei 238 monasteri buddisti della regione, incuneata tra il Sichuan e l’attuale Tibet, 87 sono crollati e il 60% degli altri è pericolante. Il Sengze Gyanak Mani, la montagna di pietre sacre buddiste più grande del mondo, è distrutta. Oltre due miliardi di sassi incisi con i mantra, sono franati travolgendo gli otto stupa e le ruote di preghiera alte dieci metri. Migliaia di statue antiche delle divinità tibetane, di preziosi testi sutra e di thangka, dipinti e ricamati su seta, sono andati perduti. Profonde crepe lacerano il mitico tempio della principessa Wencheng, protetto da una grotta, e la moschea di Jyekundo, il nome tibetano di Gyegu. Tra i 23mila monaci dell’ordine gelugpa, il governo locale conta 83 vittime. I lama sostengono di aver perduto oltre 1000 confratelli.

Tra capoluogo e provincia sono crollate il 70% delle 192 scuole, impraticabili le altre. Secondo le cifre ufficiali, gli studenti morti nella regione sarebbero 207. Monaci e attivisti per i diritti umani sono in possesso di elenchi che certificano 769 studenti morti solo nei 67 istituti e collegi di Gyegu. Centinaia gli studenti dispersi. I vertici del partito comunista della contea, dopo le prime ore, avrebbero cambiato i dati nel timore di un altro scandalo. Due anni fa, nel confinante Sichuan, oltre 6 mila alunni sono morti nel terremoto che ha causato il crollo di centinaia di scuole costruite male per fretta, corruzione e incuria. A Gyegu e nelle altre cinque città della contea appaiono cancellati anche i nuovi quartieri costruiti dal governo per concentrare forzatamente i pastori nomadi dispersi sull’altopiano.

Migliaia di superstiti, stremati dalla fame e dal gelo, continuano a scavare tra le macerie con le mani, o con vecchi badili. Recuperano soprattutto travi in legno, preziose per l’assenza di alberi. La contea di Yushu si trova ad una quota media di 4400 metri. Di giorno la temperatura raggiunge ora i dieci gradi, di notte scende a dieci sotto zero. Negli ultimi giorni ha nevicato più volte, un vento gelido e violento solleva tempeste di sabbia. Elettricità e acqua corrente restano interrotte. Squarci di sole trasformano le piste in un pantano. Per raggiungere Gyegu da Xining, occorrono 18 ore di camion. Si viaggia in un deserto di pietre oltre i 4 mila metri e nei passi si tocca quota 5100 metri. Alcuni ponti, impraticabili, costringono a deviazioni sulla schiena delle montagne. Lo scenario è impressionante. In poche ore si passano le sorgenti del Fiume Giallo, del Megong e dello Yangtze, i tre grandi fiumi dell’Asia, tra duemila vette oltre i 5 mila metri.

Tra i “Laghi delle Stelle” ghiacciati, nella prefettura di Maduo, si incontrano solo branchi di yak, antilopi, mufloni e lupi. L’unica strada è invasa dalle colonne dei soccorsi, in gran parte bloccati nel fango indurito. Sul fondo di un precipizio giace un tir rovesciato, con il motore ancora acceso. Nelle tendopoli e per le strade sconvolte di Gyegu, i funzionari di partito e gli agenti di polizia appaiono invece più presenti dei 12 mila militari inviati da Pechino per rimuovere i detriti. La maggioranza, cani compresi, è colpita dal mal di montagna. Nell’aria la concentrazione di ossigeno è la metà di quella presente al livello del mare. Il pericolo di epidemie, tra cui la peste polmonare trasmessa dalle marmotte, è procrastinato dal freddo. Tale rischio, oltre alla difficoltà linguistica tra tibetani e cinesi di etnia han, al fatto che solo una piccola parte della popolazione è censita, è uno dei motivi all’origine della discrepanza nel conteggio delle vittime. Nei primi due giorni dopo il terremoto, quando i soccorsi inviati da Pechino non erano ancora arrivati e 700 scosse di assestamento hanno perfezionato la distruzione, migliaia di cadaveri sono stati cremati, offerti agli avvoltoi, o affidati alla corrente rossa del fiume Yangtze, secondo la tradizione. Sulla sommità della collina di Zhaxi Datong, che franando ha travolto centinaia di case in fango, legno e sassi, due trincee parallele lunghe cento metri sono state scavate dalla gente per bruciare i cadaveri. La cenere è ancora calda e i pali di ferro, disposti a formare una griglia, sono piegati dal peso e dal fuoco. Secondo il governo, in questo rogo comune sono stati bruciati 1400 corpi. Il buddha vivente Lodroe Nyma Rinpoche, guida spirituale del monastero Thrangu, sostiene invece di aver cremato qui 2110 cadaveri solo venerdì 16 aprile.

Le pire più grandi sono state organizzate poi tra sabato e domenica. In decine di villaggi i sopravvissuti continuano però a bruciare salme in modo autonomo, senza aspettare i funzionari.

Davanti alle case crollate, o vicino ai monasteri, volano vie colonne di fumo nero. La cremazione di massa, per i tibetani, è uno shock. Il “funerale di fuoco”, al posto di quelli “dell’aria”, o “dell’acqua”, è un evento estremo. La popolazione si è rassegnata solo perché nel cielo e nei fiumi dello Yushu non c’erano abbastanza avvoltoi, né pesci, per portare tutti i cadaveri nella prossima vita. La tensione sale e l’incubo di Pechino è il surriscaldamento politico dell’intera regione tibetana. Improvvisamente le immagini dei monaci buddisti impegnati a scavare tra le macerie, sono scomparse da giornali e televisioni. Il Qinghai è il cuore dell’antico Tibet.

A Taktser, nella regione dell’Amdo, è nato Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, che dall’esilio ha chiesto invano di poter visitare la sua terra natia, sconvolta dal sisma. E’ noto anche come la “Siberia della Cina”, a causa degli esperimenti atomici e dei campi di rieducazione maoista. Sulla via per Gyegu si incontra però anche l’Amnye Machen, 6282 metri, il monte sacro dei buddisti, come il Kailash, nell’attuale Tibet. Proprio da qui, nel marzo del 2008, si è propagato fino a Lhasa il focolaio di ribellione dei monaci contro Pechino. Da allora i campi di rieducazione sono stati riaperti. Due settimane fa, quando migliaia di religiosi dal cappuccio giallo sono usciti dai templi per accorrere sul luogo del terremoto, a bordo di moto e furgoni, è stata la prima volta che monaci di sette diverse si incontravano dopo le sommosse represse nel sangue. Attualmente vivono nei monasteri, tra Gansu e Sichuan, pressoché reclusi. Il governo cinese è stato colto alla sprovvista dalla loro “fuga umanitaria” e teme che la concentrazione di monaci nello Yushu, considerati leader dalla popolazione, possa sfociare in un’altra rivolta.

L’espulsione dei religiosi da Gyegu e dai villaggi vicini è la scintilla dell’odio che in queste ore risale tra i tibetani scampati al terremoto, il 97% della popolazione, e i cinesi han. La propaganda nazionalista è massiccia.
Giornali e tivù, da Pechino, tempestano di immagini con militari e medici cinesi, ritratti come eroi, impegnati a salvare tibetani feriti. Le visite del premier Wen Jiabao e del presidente Hu Jintao agli sfollati, hanno paralizzato i soccorsi per due giorni. Come alla vigilia delle Olimpiadi, l’orgoglio patriottico serve a non turbare l’imminente inaugurazione dell’Expo di Shanghai, vetrina mondiale “altamente sensibile”. Il governo della capitale, per decenni, ha dipinto i monaci tibetani come “nemici del popolo”. Non può consentire che il loro sacrificio, essenziale nelle prime ore della tragedia, offuschi oggi la mobilitazione del partito e attragga inediti simpatie popolari. Il problema più imbarazzante resta però il crollo sistematico di scuole e quartieri appena costruiti dallo Stato, mentre palazzi governativi e caserme risultano intatti. A Gyegu, centomila abitanti prima del sisma, studiavano ventimila bambini e ragazzi.

Confluivano nei collegi da tutta la provincia, lasciando per mesi i loro villaggi di pastori. La scossa più violenta, alle 7.49 del mattino, li ha sorpresi già in classe a pulire, o nelle camerate a preparare gli esami. Nella scuola primaria numero 3, secondo i dati ufficiali, ci sono state 40 vittime.

Secondo il preside Nyima Gyaltsen, ancora in tuta e mocassini sfondati, dei 3100 ragazzi sepolti dai 18 edifici, i superstiti accertati sono invece 63. Stragi analoghe, smentite dalle autorità, si sarebbero verificate in tutte le altre scuole, nell’istituto professionale femminile, nell’orfanotrofio sbriciolato dove vivevano mille bambini, negli ospedali crollati. I tibetani del Qinghai temono che alla truffa sugli appalti degli edifici pubblici segua ora la razzia dei finanziamenti per la ricostruzione. Non accettano di essere esclusi da ogni scelta, si oppongono alle ruspe che stanno spianando tutto e hanno paura che la falsificazione dei dati sulle vittime preluda a una nuova ondata di colonizzazione han della regione. Pechino ha invece un solo problema: la stabilità sociale dell’area tibetana dentro la propaganda sull’efficienza del partito comunista. Lo sa anche Zhu Tsai Jia, che per 49 giorni non si laverà i capelli, né cambierà il suo abito strappato. Per i tibetani questo tempo, dopo un lutto, conclude il cerchio della vita. Apre il bagagliaio dell’auto e innaffia il corpo decomposto di sua moglie Daizhong.

Amici e parenti intonano le preghiere. Non rispondono a un funzionario che mostra la sua tessera rossa e pretende le generalità dei presenti. Salgono su una collina bianca di neve e

cercano altri avvoltoi, di nuovo affamati.

Giampaolo Visetti

(Repubblica – 28 aprile 2010)