LA RESA DEI CONTI TRA INDIPENDENTISTI E AUTONOMISTI

di Roberto Pinter

Sul sito dell’Associazione Italia-Tibet sono stati pubblicati due interventi, uno di Carlo Buldrini e uno del presidente Claudio Cardelli, entrambi a commento del dibattito ospitato da Radio Radicale tra Pietro Verni e Marco Pannella. Conosco le posizioni di Verni e le trovo, come dire “scontate”, politicamente troppo distaccate, più volte a rispondere alle proprie domande che ad offrire una via d’uscita al popolo tibetano. Quanto a Pannella è trent’anni che faccio a pugni con le sue elaborazioni che contengono verità scomode, ma anche comode omissioni.

Trovo il commento a riguardo di Claudio Cardelli equilibrato e corretto.

Mi preoccupa di più il commento di Carlo Buldrini, che pure stimo, perché invita a una resa dei conti tra autonomisti ed indipendentisti che è assolutamente l’ultima cosa di cui ha bisogno il popolo tibetano.

Io credo che la nostra associazione per statuto debba riconoscersi nelle posizioni espresse dal Dalai Lama e del parlamento e governo in esilio, ma non deve per questo evitare di interrogarsi su cosa accade in Cina e tra i tibetani.

La discussione tra indipendentisti e autonomisti ha un senso se è un modo per domandarsi quale sia la giusta via per la libertà del popolo tibetano, è un non senso se invece pensa di poter veramente disporre dell’alternativa.

Non conosco tibetano o amico dei tibetani, ed io mi considero tale, che non pensi che l’indipendenza sia un diritto e logica conseguenza dell’autodeterminazione, e chi è per l’autonomia lo fa per scelta politica non per resa. Non c’è alcuna relazione tra l’essere indipendentisti e l’avere a cuore la sorte dei tibetani. Anzi semmai ritengo che chi propone l’indipendenza come via da percorrere politicamente e non solo idealmente sia più interessato alla ragione astratta che non alle sorti concrete dei tibetani.

I tibetani non vogliono saperne della Cina, non ci vogliono grandi saggi per dirlo, ma hanno affidato consapevolmente al Dalai Lama la guida non solo spirituale ma anche politica del popolo tibetano e per questo si riconoscono nella sua azione, che non è quella di uno stanco revisionista, ma di un lucido leader che conosce benissimo la condizione vissuta dai tibetani eppure ha, a differenza dei nostri commentatori o di giovani impazienti, la responsabilità di non far cadere nella disperazione il suo popolo e di offrire una via d’uscita. L’unica via d’uscita oggi per un popolo oppresso dalla Cina è certamente quella di confidare nel cambiamento di quel paese, ma guardando al potere del nazionalismo e dell’imperialismo cinese è impossibile che esista una via pacifica all’indipendenza ed è ancor più impossibile che ne esista una armata.

Bisogna augurarsi il martirio dei tibetani se ne rivendichiamo l’indipendenza ed è singolare che, se l’autonomia non fa un passo, si rilanci con l’indipendenza, addirittura presumendo di essere così più realisti!

In ogni caso che senso ha chiedere la resa dei conti come prima o poi hanno fatto purtroppo i tanti movimenti indipendentisti o rivoluzionari? Scegliere i più duri, i più puri? E chi lo decide? L’osservatore occidentale? Perché assimilare la straordinaria forza e unità della resistenza tibetana a movimenti che non hanno mai scelto la nonviolenza come mezzo per arrivare alla libertà e come espressione di libertà?

La verità è che la situazione è disperata, che la Cina è sempre più forte e sempre più feroce, che gli stati e la politica internazionale sono indifferenti, che conta solo l’interesse economico, e che noi europei invece di dividerci su cosa chiedere dovremo unirci per fare l’impossibile.

I tibetani hanno diritto all’impazienza, noi dovremo essere sì impazienti, ma non verso il Dalai Lama, bensì verso noi stessi e verso i nostri governi: tanto per cominciare, poi ne riparliamo.

Roberto Pinter

(Consigliere nazionale dell’Associazione Italia Tibet)