26 luglio 2010. Arrivano viaggiando sui treni d’alta quota, quattro ogni giorno, percorrendo duemila chilometri tra montagne innevate, o con convogli di camion militari che si fanno strada rumorosamente sul tetto del mondo. Sono cinesi di etnia Han (la maggioranza in Cina), operai, investitori, mercanti, insegnanti e soldati che stanno massicciamente confluendo in Tibet. Dopo le violenze che sconvolsero la regione nel 2008, il governo di Pechino ha deciso di innalzare il livello di vita del Tibet e, al contempo, di renderlo più cinese.
I leader cinesi, scrive Edwuard Wong in un articolo pubblicato sul New York Times il 24 luglio, vedono nello sviluppo economico, assieme ad un incremento delle misure di sicurezza, la chiave per pacificare questa regione buddhista. L’anno scorso il governo di Pechino ha investito tre miliardi di dollari nella Regione Autonoma del Tibet, con un aumento del 31 per cento rispetto al 2008. In Tibet, il prodotto interno lordo cresce del 12 per cento annuo, più di quello cinese.
Modesti ristoranti, situati in bianche case prefabbricate e gestiti da uomini d’affari Han, sono spuntati un po’ dovunque, perfino sulle rive di un remoto lago a nord di Lhasa. Circa un milione e 200 mila contadini tibetani, il 40 per cento della popolazione della regione, sono stati trasferiti in nuove, anonime abitazioni, in osservanza al programma “Case Confortevoli”. Inoltre, funzionari governativi affermano che il turismo aumenterà di quattro volte entro il 2020, con una media di circa 20 milioni di visitatori l’anno.
Tuttavia, rileva il New York Times, se l’influsso di denaro e di gente ha portato una nuova prosperità, ha anche approfondito il risentimento di molti tibetani. Gli imprenditori emigranti Han scalzano i concorrenti tibetani e dopo aver intascato i loro profitti tornano a casa per l’inverno. Grandi aziende di proprietà degli Han dominano le principali industrie, dal settore minerario, a quello edilizio a quello turistico.
Il Tibet è più sicuro dopo che le forze di sicurezza posero fine alla più grave rivolta anti-cinese in cinquant’anni. Ma l’aumentata presenza Han – e i benefici che gli Han ricevono per i loro investimenti – tengono il Tibet sul filo del rasoio.
Il governo non consente ai giornalisti di viaggiare da soli. I rappresentanti dell’informazione sono “pilotati” da personale specializzato e condotti a visitare e prendere visione di nuove realizzazioni e progetti di sviluppo. Hao Peng,vice-presidente e vice-segretario del partito nella regione, ha dichiarato a un piccolo gruppo di giornalisti stranieri che “Il flusso di risorse umane segue le regole dell’economia di mercato ed è indispensabile per lo sviluppo del Tibet”. Ha aggiunto: “L’attuale sistema può aver causato una distribuzione sbilanciata, ma stiamo adottando le misure necessarie per la soluzione di questo problema”.
I pochi tibetani che hanno potuto parlare liberamente, anche se in condizione di anonimità, hanno detto di aver paura delle forze di sicurezza. Uno studente liceale ha dichiarato che i tibetani, a aprità di livelli d’istruzione, non possono competere nel campo del lavoro con emigranti Han. “I tibetani trovano solo lavori di bassa levatura”.
I funzionari cinesi affermano che nella Regione Autonoma i tibetani costituiscono il 95 per cento della popolazione su un totale di 2.9 milioni di residenti. Tuttavia, rifiutano di fornire dati sull’immigrazione Han. Ma in città come Lhasa e Shigatse è evidente che i quartieri Han sono molto più numerosi di quelli tibetani.
Il risentimento e la frustrazione dei tibetani contro gli Han sfociarono nelle dimostrazioni del 2008. A Lhasa i tibetani saccheggiarono e bruciarono centinaia di negozi. Secondo il governo cinese, diciannove Han rimasero uccisi. La rappresaglia governativa fu dura e si estese all’intero altopiano.
Oggi, ingenti forze di sicurezza sono necessarie per mantenere il controllo di Lhasa. Attorno al Barkhor, il mercato centrale cittadino, agenti paramilitari in assetto antisommossa marciano attorno al sacro tempio di Jokhang affollato di fedeli. Uomini armati sono appostati sui tetti delle case vicine al tempio. Le fotografie del Dalai Lama sono bandite e i pellegrini e visitatori che affollano il tempio o che si recano in visita al palazzo del Potala sono costretti a nascondere la sua immagine nei reliquiari o negli amuleti.
Fonti: New York Times/ Agenzie