“NON HO nemici: è la mia ultima dichiarazione”. Dopo vent’anni di persecuzioni Liu Xiaobo, simbolo della dissidenza cinese, ha moralmente vinto il premio Nobel per la pace il 25 dicembre 2009. Era il giorno di Natale, la stampa occidentale non sarebbe uscita per due giorni.
Pechino era svuotata di giornalisti stranieri. Il tribunale della capitale chiuse un anno di istruttorie segrete con la sentenza-farsa che si è rivelata ieri il peggiore passo falso del regime: undici anni di prigione per “incitamento alla sovversione ai danni dello Stato”. L’oppositore più imbarazzante del Paese, cristiano, colpevole di aver promosso “Charta 08”, affidò alla moglie Liu Xia il suo messaggio per gli amici: “Inizia oggi la corrosione finale della nostra patria. Nel dolore, per noi è un giorno di speranza”.
Liu Xiaobo è quindi scomparso fino al 13 febbraio, segregato in un luogo ignoto, irraggiungibile anche per moglie e avvocato. È riemerso dal nulla alla vigilia di un’altra festa, il Capodanno cinese. Pechino di nuovo deserta, i cinesi in casa a mangiare e a sparare botti. E ancora una condanna, l’ultima, del tribunale supremo: ricorsi e appelli mondiali respinti, undici anni di carcere nell’indifferenza collettiva. La censura quel giorno ha impedito ogni commento del condannato. “Mi si spezza il cuore”, l’unica frase affidata dalla moglie a Twitter.
Pochi, lo scorso inverno, hanno compreso che con la condanna di Liu Xiaobo la Cina si illudeva, vent’anni dopo, di aver chiuso i conti con il massacro di piazza Tienanmen. Ma per i dissidenti la metafora era chiara. La rivolta studentensca del 1989 è scaduta, ma a Pechino la brutalità disumana dei metodi polizieschi, contro qualsiasi forma di dissenso, resta in vigore. Liu Xiaobo, 55 anni il prossimo 28 dicembre, la conosce bene. La violenza del potere è la malattia cronica che segna la sua vita già consumata e la resistenza passiva contro gli abusi delle autorità è l’antidoto del suo destino. Ha 34 anni quando sceglie e da quel giorno non vedrà più i vecchi genitori, operai di Changchun, città industriale nella regione di Jilin, nel nordest della Cina. Una sorte pressoché segnata.
A scuola è sempre il migliore e i funzionari comunisti locali lo notano. Lo iscrivono nella sezione giovanile del partito e gli pagano gli studi che la famiglia non si può permettere. Destinato all’insegnamento universitario, sceglie la letteratura cinese. Laurea a Jilin nel 1982, master nella capitale due anni dopo e dottorato alla Normale di Pechino nell’88. E’ il più giovane e brillante docente dell’ateneo, quando il comunismo implode nell’Est Europa e Asia centrale. Non ha dubbi. “Nel 1989 – ha raccontato – studenti e professori erano uniti dalla speranza che il crollo dell’Urss percorresse la Siberia e che il cambiamento superasse la Grande Muraglia. Pensavamo che diritti umani, democrazia e indipendenza della giustizia erano l’unica strada per salvare il popolo cinese. I carri armati di giugno ci hanno colto impreparati”. Quel maggio il professor Liu Xiaobo si schiera dalla parte delle riforme. Assieme a Wang Dan e Wu’er Xi, suoi allievi, fonda la Federazione autonoma degli studenti, cuore delle proteste di Pechino.
Negli ultimi giorni del mese, e fino al 4 giugno, anima il disperato tentativo di dialogo con l’ala riformista del partito, guidata dal segretario Zhao Ziyang. Si spinge fino ad accettare un rinvio della libertà e ad iniziare lo sciopero della fame, pur di salvaguardare la possibilità di cambiare la Cina pacificamente. “La notte del 3 giugno 1989 – ha confidato agli amici – capii che tutto era perduto. Deng Xiaoping aveva scelto la repressione e vedevamo l’esercito che si ammassava attorno alla città proibita. Pensai che la priorità era salvare la vita dei miei ragazzi”. Convince centinaia di studenti e intellettuali ad abbandonare piazza Tienanmen, ma la maggioranza degli insorti decide di restare. Lui è tra questi, davanti ai carri armati, nelle ore in cui il massacro si compie.
Si può dire che Liu Xiaobo, come ricorda la moglie, sua collega di insegnamento, “è nato da quel sangue”. Accusato dal partito comunista di essere una delle “mani nere” che “manovravano gli studenti per destabilizzare lo Stato e distruggere la Cina”, viene arrestato, proclamato “controrivoluzionario” e condannato a 18 mesi di prigione. Due anni dopo, altra condanna per “propaganda e istigazione controrivoluzionaria”.
Nel 1996 la terza pena: critica il partito e viene punito con tre anni in un “laogai”, i campi di rieducazione ideologica fondati da Mao, per “disturbi alla quiete pubblica”. Viene liberato nel 1999, dieci anni dopo Tienanmen. Il partito lo licenzia dall’università e Liu Xiaobo, disoccupato, emigra. “Per vivere e scrivere liberamente – ha spiegato – ho insegnato alla Columbia University, in Europa e alle Hawaii. Con mia moglie ci siamo rassegnati a non avere figli, per non condannarli a condividere la nostra sorte”. Torna a Pechino nel 2004 e continua a battersi per riforme politiche, diritti umani e libertà di espressione. Fino all’8 dicembre 2008. Le Olimpiadi di Pechino sono finite e la repressione dei monaci in Tibet consumata. Scrive e promuove “Charta 08”, l’ultimo manifesto per la democrazia del dissenso cinese.
Viene arrestato, ancora una volta alla vigilia di Natale. Il popolo cinese è stato costretto a dimenticarsi di lui e nessuno viene a sapere del quarto ritorno in prigione. Da quel giorno vive nel carcere di Jinzhou, nella provincia di Liaoning. Condivide una cella di trenta metri con altri cinque detenuti. E’ costretto a lunghi periodi di isolamento. Mangia solo riso, verdura e panini al vapore. Indossa l’uniforme grigio-bianca del condannato, ha un’ora d’aria e passa il tempo a leggere gli autori consentiti dalla censura: le poesie di Paul Celan, “Il Castello” di Kafka, saggi di storia e filosofia.
Ogni giorno spedisce una lettera d’amore alla moglie, che consegna una volta al mese, quando possono incontrarsi per un’ora. Si abbracciano e, alla presenza delle guardie, parlano di “cose senza importanza per evitare di essere puniti”. Per questo Liu Xiaobo, nelle scorse settimane, non ha potuto discutere del “pericolo” di vincere il premio Nobel. Il suo avvocato, in febbraio, lo aveva avvisato della candidatura proposta da Havel, da Tutu e dal Dalai Lama. Aveva sorriso, dicendosi “indegno ma onorato”.
Questa notte, dopo oltre vent’anni di lotte e di sconfitte, ignaro di essere diventato in pochi istanti una celebrità mondiale, è andato a dormire tranquillo, come sempre. Pensa ancora di essere solo “uno dei tanti condannati cinesi dimenticati, che cercano di rendere migliore la loro patria”. Anche il popolo cinese continua a non sapere chi sia Liu Xiaobo. Ma da ieri la Cina sente che i conti con il professore di piazza Tienanmen non sono saldati: e che qualcosa di profondo è cambiato per sempre.
Giampaolo Visetti
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9 ottobre 2010