I pieni poteri del Dalai Lama

di Piero Verni

(Il Riformista – 17 novembre 201)

 

“Quando, quel 17 novembre 1950, i membri del governo tibetano vennero a chiedermi di assumere subito la carica di capo dello stato fui preso dal panico. Avevo solo sedici anni, nessuna esperienza politica e per di più i miei studi non erano ancora terminati. All’inizio tentai di rifiutare ma poi mi convinsi che non c’erano alternative, non potevo evitare le mie responsabilità”. Con queste parole il Dalai Lama mi raccontò come fu che assunse la carica di leader politico, oltre che spirituale, della nazione tibetana.

Il Tibet nel 1950 era uno stato arcaico. Una nazione isolata e ferma nel tempo. Era riuscita ad evitare di essere coinvolta nella grande tempesta della seconda guerra mondiale ma negli anni ’40 una serie di difficili crisi politiche avevano messo a repentaglio l’equilibrio interno del Paese. Ma queste pur gravi tensioni si rivelarono presto poca cosa rispetto al ben più grave pericolo che si andava profilando all’orizzonte del Tetto del Mondo. Il 7 ottobre 1950, le truppe della neonata Cina maoista cominciavano l’invasione del Tibet attaccando la frontiera in sei luoghi diversi. La perfetta macchina bellica dell’Armata Rossa aveva in  poco tempo sbaragliato la pur eroica resistenza del piccolo esercito tibetano e il 17 ottobre Chamdo, capitale della regione dell’Amdo, era caduta.

A Lhasa le frammentarie notizie che giungevano dai remoti confini orientali avevano portato la tensione alle stelle. Il governo e la popolazione si stavano ben presto rendendo conto che lo “splendido isolamento” del Paese delle Nevi era finito. E con esso terminava anche un’epoca. “Nonostante non possedessi la maturità necessaria per assumere un incarico tanto impegnativo e per di più in un momento così tragico”, sono sempre parole del Dalai Lama, “capivo anch’io che i tibetani riponevano in me, in quello che rappresentavo ai loro occhi, tutta la loro fiducia e la loro speranza. Ed io dovevo accettare quello che mi veniva richiesto. Lo imponeva la gravità del momento”. Il 17 novembre 1950, all’interno del palazzo del Potala, in una cornice in cui la sfarzosità del protocollo si coniugava con la fibrillazione del momento rendendo il tutto alquanto surreale, Tenzin Gyatso assunse ufficialmente i pieni poteri. Aveva sedici anni, quattro mesi e undici giorni. Mai prima di allora il Tibet era stato governato da un Dalai Lama così giovane.

Oggi, 60 anni dopo, fa una certa impressione pensare a quei momenti. Sembrano distanti secoli più che decenni. Il vecchio Tibet, con i suoi pregi e i suoi difetti non esiste più, spazzato via dalla violenta colonizzazione cinese e dalla ancor più brutale modernizzazione imposta da Pechino. Quel Tibet narrato da resoconti di viaggio, saggi, romanzi è solo un ricordo dai contorni sfumati di un’epoca passata. Di un periodo in cui il Tetto del Mondo era, per dirla con una frase di un famoso documentario della BBC, “L’ultimo mistero che il XIX secolo aveva lasciato al XX da esplorare”. Ma esiste ancora, e per fortuna, il Dalai Lama. Non è più l’adolescente delle fotografie in bianco e nero che ci raccontano quegli anni però lo sguardo acuto, ironico e curioso è lo stesso. Non è più il sovrano misterioso di un intrigante medio evo asiatico rimasto incredibilmente fermo alle soglie del mondo moderno. Non è più il ragazzo sulle cui spalle cadde il peso di una tragedia senza uguali abbattutasi sul suo popolo e la sua nazione. Oggi il Dalai Lama, che la stragrande maggioranza dei tibetani considera l’unico autentico leader del Tibet, è un Premio Nobel per la Pace. E’ una figura spirituale il cui valore è apprezzato a livello internazionale. Ma soprattutto è colui che ha saputo mantenere uniti gli oltre centomila profughi che lo seguirono nel 1959 sulla via dell’esilio indiano i quali, grazie alla sua guida, hanno vinto un’incredibile scommessa con la storia riuscendo a mantenere in vita l’essenziale della civiltà del Tibet.

Certo sotto il profilo strettamente politico il bilancio è meno positivo. Nonostante da oltre venti anni chieda per il suo Paese non più una completa indipendenza bensì una “genuina” autonomia, Pechino rimane sorda ad ogni richiesta di effettivo dialogo e le porte dei palazzi del potere continuano ad essere più sigillate che mai.  Alcuni commentatori e non pochi tibetani ritengono che, vista l’assenza di risultati, la politica del Dalai Lama dovrebbe prendere una piega più ferma. Sostengono che sia stato inutile rinunciare a chiedere l’indipendenza dal momento che Pechino, a fronte di questa importante concessione del Dalai Lama, non si è mossa di un centimetro dalle sue posizioni iniziali. Vale a dire: non esiste alcun problema tibetano, la Cina ha liberato il Tibet da un feroce regime feudale e la sua popolazione è contenta di vivere all’interno della Repubblica Popolare Cinese.

Difficile prevedere come potrà evolversi la politica del Dalai Lama se le sue proposte continueranno a non avere risposta. Però lui e il Tibet iniziano ad incontrare le simpatie di alcuni settori della stessa società cinese. Ad esempio di Liu Xiaobo e del movimento Charta 08. E questo è un segno che Tenzin Gyatso legge come incoraggiante e foriero di positivi sviluppi. Con ogni probabilità quanti in Cina cominciano a ritenere maturo il tempo per un cambiamento positivo, potrebbero rivelarsi un interlocutore più disponibile della dirigenza comunista. Chissà se insieme a loro, il Dalai Lama non possa intaccare con il piccone non violento della democrazia il Muro di Pechino.

Piero Verni

(Il Riformista – 17 novembre 2010)