Il processo di urbanizzazione dei nomadi, iniziato nel 2000 e proseguito a ritmi serrati nel 2003, ha visto un’accelerazione tra il 2006 e il 2007, quando Pechino, nell’approssimarsi dei Giochi Olimpici, volle presentare al mondo e ai milioni di turisti che avrebbero affollato l’altopiano tibetano, una regione modernizzata e “civilizzata”.
Nel giugno 2007, in un documento di 79 pagine intitolato “Nessuno si può opporre: trasferiti i pastori del Gansu, Quinghai, Sichuan e della Regione Autonoma Tibetana”, l’organizzazione Human Rights Watch denunciò il forzato trasferimento di settecentomila tra pastori e nomadi dai pascoli dell’altopiano tibetano e delle aree adiacenti in case coloniche situate prefabbricate e squallide situate nelle vicinanze dei centri abitati. I pastori furono obbligati ad uccidere il bestiame ( yak, pecore e capre) in cambio di rimborsi minimi o inesistenti. Le persone trasferite nelle aree urbane incontrarono inoltre enormi difficoltà a trovare un lavoro dignitoso in grado di garantirne la sopravvivenza, in parte perché non conoscevano la lingua cinese e in parte perché non possedevano il denaro necessario all’avvio di una qualsiasi attività.
Secondo il governo cinese, il trasferimento forzato dei nomadi è necessario per la protezione dell’ambiente e per “sviluppare”, “civilizzare” e “modernizzare” sia le aree interessate sia la popolazione. Il programma di rilocazione, denominato “progetto per un’abitare confortevole”, dovrebbe consentire a contadini e agricoltori un più facile accesso alle scuole e al lavoro e garantire condizioni abitative più salutari. Human Rights Watch, che fin dal 2007 ha chiesto a Pechino di sospendere i trasferimenti e di consentire ai pastori e ai nomadi di tornare alle proprie terre, ritiene invece che dietro questa politica si nasconda il desiderio di cancellare la cultura tibetana e di assimilare i tibetani alla popolazione han.
Fonti: Human Rights Watch – Phayul – Radio Cina International