di Piero Verni
(Il Riformista – 10 dicembre 2010)
Oslo, dieci dicembre 1989. Nella grande sala della Universitetets Aula, tradizionale sede della consegna del Premio Nobel per la Pace, a mezzogiorno accompagnato da Egil Aarvik presidente del Comitato Nobel, il Dalai Lama entra nella grande sala. Sorride mentre si drappeggia sulle spalle lo scialle amaranto della tunica monastica. Dopo aver salutato il Primo Ministro e i membri del governo norvegese si siede nella poltrona della prima fila riservata ai vincitori del Premio. Dopo qualche istante arriva re Olaf con l’intera famiglia reale. La cerimonia si apre con le parole di Egil Aarvik che termina invitando il Dalai Lama a salire sul podio per ricevere il Premio Nobel per la Pace, la medaglia d’oro e il diploma. L’Oceano di Saggezza recita una breve preghiera, pronuncia alcune frasi in tibetano in cui propone i temi centrali del suo pensiero e della sua filosofia e poi, passando all’inglese, inizia il suo discorso. Descrive sè stesso come “… un semplice monaco buddhista che segue con profonda convinzione un modo di vita spirituale: il nobile sentiero del Buddha la cui essenza è l’unione della saggezza e della compassione universale”. E continua dicendo, “Sono anche una persona che, attraverso il naturale corso degli eventi, è legata al destino del Tibet, del suo popolo, della sua cultura e ha dedicato tutte le proprie energie all’adempimento di questo dovere. Questo premio rappresenta il riconoscimento e l’appoggio internazionale per la giusta lotta del popolo tibetano per la libertà e per l’autodeterminazione. Spero e prego che presto possa prevalere la verità e i diritti del mio popolo vengano ristabiliti”. Ricorda infine i giovani dissidenti cinesi che lo fanno essere ottimista per il futuro della Cina e conclude riaffermando la sua incrollabile fiducia nell’essere umano e nei metodi non violenti intesi come unica via per far prevalere giustizia e diritti umani.
Solo ventuno anni sono trascorsi da quella mattina ma sembrano passati secoli. Con la caduta dell’impero sovietico ormai alle porte, sembrava che anche il Dragone Rosso stesse per imboccare la medesima strada. Pechino era isolata. Ancora sotto shock per il forte brivido che la febbre di TienAnMen aveva provocato al potere della sua nomenklatura dove l’algido Li Peng governava all’ombra di un Deng Tsiao Ping corrucciato e perplesso. La Cina aveva inutilmente protestato contro l’assegnazione del Premio Nobel al Dalai Lama, primo cittadino dell’Asia a ricevere l’ambito riconoscimento. Venne intimato al re Olaf di non partecipare alla cerimonia. L’intero governo norvegese fu avvertito che se il Dalai Lama si fosse incontrato con un qualsivoglia ministro o funzionario sarebbero immediatamente state troncate le relazioni commerciali tra Cina e Norvegia e gli stessi rapporti diplomatici avrebbero corso seri rischi. Però la piccola ma coraggiosa monarchia scandinava seppe resistere alla protervia del gigante orientale. Non solo la consegna del Nobel avvenne, come ogni anno, alla presenza del sovrano e dell’intera famiglia reale ma il leader tibetano fu anche ricevuto ufficialmente dal primo ministro Jan P. Syse, dal ministro degli esteri Kjell Magne Bondevik e dai membri del parlamento.
L’assegnazione del Nobel, in quella fine di decennio così densa di rivolgimenti politici in Europa, aveva acceso molte speranze. Un entusiasmo che si toccava con mano camminando tra le migliaia di persone che si erano riunite di fronte alla Universitetets Aula. Tibetani venuti da ogni parte del mondo, amici del Tibet d’innumerevoli nazionalità, abitanti di Oslo, tutti erano convinti che da lì a poco sarebbe avvenuto in Cina un cambiamento epocale. Una sorta di replica asiatica del terremoto politico che stava facendo fibrillare i sismografi della politica nell’est europeo. Solo il Dalai Lama era più cauto. “Il pomeriggio del 5 ottobre”, disse nel corso di un’intervista che mi concesse a Bonn pochi giorni prima di recarsi a Oslo, “avevo sentito alcune voci secondo le quali avrei ricevuto il Premio Nobel. Provai un leggero senso di eccitazione e anche di stupore. Alle nove di sera ascoltai alla radio il notiziario della BBC ma non dissero niente al riguardo. Pensai che si fosse trattato di voci senza fondamento e andai a dormire. Invece la mattina dopo scoprii che la notizia era vera. Se devo essere sincero non ne rimasi sconvolto. Rimanevo un semplice monaco buddhista. Io non sono importante, lo è il popolo tibetano”.
Oggi dobbiamo prendere atto che il Nobel al Dalai Lama non ha contribuito al miglioramento delle condizioni del popolo tibetano e non ha aiutato in nessun modo l’impegno politico dell’Oceano di Saggezza. Ma in questo lasso di tempo la Cina ha saputo uscire dall’angolo in cui la brutale repressione della protesta studentesca l’aveva relegata ed è divenuta un colosso con il quale tutti i governi devono fare i conti. Di converso il Dalai Lama, pur con il prestigio che il Nobel gli ha conferito, non è riuscito ad aprire alcuna breccia nel muro di Pechino i cui dirigenti continuano a rimanere sordi a ogni ipotesi di apertura e cambiamento. E a volte il Prezioso Protettore sembra essere quasi prigioniero del peso di quel Premio. Come fosse in obbligo di adeguarsi a uno stereotipo che forse non sempre gli appartiene. Così adesso ha di fronte una Cina notevolmente più forte e influente che sta reagendo con protervia e brutalità ad un altro Nobel scomodo, quello a Liu Xiao Bo.
Il Dalai Lama ha più volte espresso le sue speranze che Pechino si renda finalmente conto di non poter più esimersi dall’aprire il sistema a significative riforme politiche e al confronto con quanti credono nelle ragioni del dialogo, della discussione civile, del cambiamento graduale. Si chiamino Dalai Lama, Rebiya Kadeer, Liu Xiao Bo.
Che queste speranze siano ben riposte e possano tramutarsi in realtà, è un altro discorso.
Piero Verni
Il Riformista
10 dicembre 2010