PECHINO. Il Dalai Lama afferma di essere prossimo alla “pensione” e tra Pechino e Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, è braccio di ferro per la successione. Da anni la Cina tenta di assumere il potere di nominare l’erede dell’attuale guida spirituale dei buddisti, completando così la conquista politica e culturale del Tibet. E’ una guerra che coinvolge anche l’Occidente, Stati Uniti in testa, combattuta a colpi di sequestri di persona, designazioni unilaterali e promozione di monaci lamaisti a leader del partito comunista. Ma ora, a poche settimane dall’annunciato ritiro di Tenzin Gyatso, 75 anni, XIV Dalai Lama e premio Nobel per la pace, Pechino sfodera per la prima volta l’arma del diritto. L’amministrazione statale per gli affari religiosi, una sorta di ministero che controlla la gestione delle diverse confessioni, ha annunciato il varo di una legge che fissa i criteri per una “legittima reincarnazione di Buddha”.
Secondo Pechino il successore del Dalai Lama non potrà reincarnarsi in un territorio diverso da quello cinese. Le autorità comuniste, storicamente atee, stabiliscono cioè che d’ora in poi la guida spirituale dei buddisti non potrà che nascere in Cina, ossia sotto il controllo dei funzionari dello Stato. L’attuale Dalai Lama, nelle scorse settimane, aveva confermato invece che il suo successore non si sarebbe più reincarnato in Tibet, territorio cinese dopo l’invasione del 1959, fino a quando la regione e le altre storicamente tibetane saranno sotto il dominio di Pechino.
Se il Dalai Lama aveva sbarrato la strada all’ascesa al potere del’attuale Panchen Lama, scelto e protetto dai funzionari comunisti, la Cina blocca ora per legge l’opportunità che alla morte del Dalai Lama, o dopo un’inedita abdicazione, la sua reincarnazione possa avere luogo in un bambino nato e residente all’estero, magari in India, senza il via libera delle autorità cinesi.
La “guerra della reincarnazione” buddista è sempre stata delicata. Per secoli i baby-pretendenti al trono del Potala, a Lhasa, hanno corso il pericolo di essere assassinati dai clan dei rivali e in molti casi ciò è avvenuto. Nel 1995, dopo che il Dalai Lama aveva individuato in un bambino tibetano la reincarnazione dell’undicesimo Panchen Lama, ossia del numero due della gerarchia lamaista, il prescelto è misteriosamente scomparso e Pechino ha insediato un proprio candidato al suo posto. Anche l’attuale Karmapa Lama, fuggito rocambolescamente dalla Cina nel 2000 e rifugiato a Dharamsala, pur essendo nato e cresciuto in Tibet conta almeno due contendenti all’eredità di Tenzin Gyatso. L’India, per scongiurare il rischio di scontri tra gruppi di esuli tibetani, impedisce che i pretendenti alla successione del Dalai Lama possano raggiungere il monastero dove è custodito un copricapo nero, simbolo dell’autorità lamaista.
La lotta per la guida spirituale dei buddisti non si limita alla “cinesizzazione per legge” della reincarnazione del Dalai Lama, pretesa da Pechino. Uno scandalo finanziario, che vedrebbe coinvolti i servizi segreti cinesi, scuote da giorni i tibetani in esilio in India. Una montagna di denaro contante, poco meno di due milioni di dollari, è stata trovata dalla polizia indiana nella stanza del Karmapa Lama, poco fuori Dharamsala. Gli agenti sono arrivati al braccio destro di Tenzin Gyatso dopo aver rinvenuto “casualmente” in un’auto una borsa con duecentomila dollari in valuta indiana. Tra i soldi custoditi dal Karmapa Lama ci sarebbero stati anche centomila dollari in yuan, la divisa cinese. Sono così tornate ad esplodere, nonostante le smentite di Pechino, le voci secondo cui il Karmapa Lama è in realtà una spia inviata a Dharamsala dai cinesi. Secondo il Dalai Lama, che difende il suo vice, il denaro è frutto invece delle donazioni dei fedeli, molti dei quali inviano offerte dal Tibet e da altre regioni della Cina.
Tra leggi sulla reincarnazione e spy story, la successione per la leadership buddista si infiamma. L’unica cosa certa è che quando finirà il regno del XIV Dalai Lama, il passaggio di consegne non sarà indolore.