A Roma la giornata di mobilitazione per il 52° Anniversario dell’occupazione di Lhasa è iniziata con un sit-in di fronte all’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese. L’impegno organizzativo dell’evento è stato ripagato dal numero davvero elevato di tibetani che, da ogni parte di Italia, hanno partecipato con la loro energica e sentita protesta. In modo determinato e compatto. Esibendo cartelli sintetici, chiari e toccanti. Concentrati sulle crescenti violazioni per il popolo del Tibet. A tutti i diritti. Non ultimo quello di apprendere e utilizzare liberamente la propria lingua.
Negli ultimi 10 anni non ricordo un sit-in così affollato e vitale. Senza eccessi, non per mancanza di desiderio ma per esercizio strategico di una solidarietà ormai incoercibile, matura e condivisa. Con molti simboli, fin troppo espliciti e palesi. Tra questi la bandiera del Tibet, per la prima volta esposta dall’ultimo piano del palazzo proprio di fronte al cancello dell’Ambasciata. E che si mostra quasi sfrontata nel suo sventolare libero, a paragone con la omonima cinese, come imbalsamata nel suo pennone. E immobile perché nemmeno una folata di vento riesce a raggiungerla nella sua arroccata fortezza. Oltre i 200 palloncini bianchi – simbolo ufficiale di pace ma reale di lutto – che con i loro cordini e scritte in rosso sono stati liberati in un cielo, assolato, di un imprevedibile azzurro.
Hanno partecipato al sit¬in tutte le Istituzioni, Associazioni e le persone che hanno contribuito a realizzare l’evento. Tra queste: Matteo Mecacci, Presidente dell’Intergruppo Parlamentare sul Tibet; Sergio Rovasio per l’Intergruppo sul Tibet alla Regione Lazio e per il Partito Radicale Nonviolento transnazionale e transpartito; Kalsang Dolker, Presidente della Comunità Tibetana in Italia insieme a Nyima Dhondup, Dechen Dolker, per l’Associazione delle Donne Tibetane; Giampiero Leo per l’Associazione regionale per il Tibet e i diritti umani presso la Regione Piemonte e per l’Associazione Comuni, Province, Regioni per il Tibet; Claudio Cardelli, Presidente dell’Associazione Italia Tibet con il Vicepresidente Fausto Sparacino, i consiglieri Marilia Bellaterra e Luciano Michelozzi, e diversi soci, tra i quali Carla Bardini; Marilia Bellaterra era presente anche in qualità di Presidente dell’Associazione AREF International; Eleonora Mongelli, Fabio Vitulli e Michele Monciassi per l’Associazione Nitobe; Nives Bellissimo e Anna Rita Chierici per La Casa del Tibet di Roma; Elisabetta Benvenuti e diversi esponenti dell’Istituto Samantabhadra; Vittoria Cattania per l’Associazione Laogai Research Foundation Italia Onlus; Livia Liverani per l’Associazione Rimè Onlus; Miki Hirashima per l’Associazione Progetto Asia; Marisa Burns per Tso Pema Associazione Non¬profit. E moltissime persone appartenenti alle Associazioni suddette e alla cittadinanza. Oltre una nutritissima presenza di Tibetani. A partire dal Ven Geshe Tenzin Thenphel, Lama residente dell’istituto Lama Tzong Khapa, con altri monaci, monache e moltissimi uomini e donne di questa tormentata etnia.
La giornata è poi proseguita a palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, dove è stato esposto a partire dalle 12.00, un banner con la bandiera del Tibet.
L’evento si è concluso, in serata, presso la prestigiosa sede dell’Auditorium dell’Ara Pacis. Si sono alternati sul palco gli artisti Toni Candeloro e i ballerini di Puglia, il pianista Maestro Sylvano Bussotti e il cantante tibetano Loten Namling. Numerosi i politici presenti. Tra questi: Mario Vattani, Consigliere diplomatico del Sindaco; Rocco Berardo e Isabella Rauti, rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell’Intergruppo sul Tibet alla Regione Lazio; Giovanna Melandri, già Ministro per le Politiche giovanili. Nel corso della serata sono state proiettate le foto “Lontano dal
Tibet” di Aref International alle quali è seguito un toccante video tratto dal filmato: “Tibet: Il grido di un popolo”. Hanno partecipato all’evento quasi 200 persone che hanno affollato la piccola ma suggestiva sala del’Auditorium.
COMUNICATO DELL’ASSOCIAZIONE ITALIA-TIBET
L’ultima trovata del Partito Consumista Cinese riguarda una legge che vieta il riconoscimento del Dalai Lama fuori dal territorio cinese. Prove generali di reincarnazione o come qualcuno ha scritto prove di “reincarnazione assistita”. N’è passata di acqua sotto i ponti da quando il riconoscimento dei “Tulku” era severamente vietato come pratica superstiziosa e reazionaria. No. Oggi nella nuova Cina, dove la religione è arma di controllo, anche queste pratiche lo diventano.
Chi è stato in Tibet recentemente si è reso conto della situazione in cui vive la maggioranza dei tibetani. Senza contare l’infame politica di deportazione delle popolazioni dei nomadi dentro villaggi dormitorio in cemento, bollenti d’estate e gelidi in inverno, costretti a svendere i loro armenti, accusati di “inquinare” il territorio e obbligati ad acquistare il proprio soffocante spazio. Al prezzo aggiuntivo di alcolismo, abbrutimento, disperazione.
Altro che schiavitù da cui essere liberati! Certo passata la ventata olimpica, la voce del Tibet è più flebile e molto più lontana. Voce che noi, che viviamo in un mondo libero, siamo eticamente tenuti a diffondere e amplificare. Alla gente comune (che spesso ignora) ai politici, ai simpatizzanti. Agli stessi cinesi … Questo è il nostro dovere: dare voce al popolo del Tibet in esilio e, soprattutto, nel Tibet stesso.
La propaganda ammuffita cinese messa in piedi già dagli anni ’60 per nascondere la verità dei fatti di OGGI potrà forse suggestionare qualcuno ma non giustifica un’occupazione illegale e soprattutto un genocidio in piena regola, per diluizione.
Nessuno ha mai sostenuto che la struttura sociale e politica del Tibet passato fosse un campione da prendere a modello. E lo stesso Dalai Lama, che per primo ha marcato necessità di riforme, si appresta oggi a dare alle Istituzioni Tibetane un ulteriore e, forse, traumatico riassetto, democratico e moderno.
Tra 4 giorni, nell’XI sessione del XIV Parlamento Tibetano in Esilio, potrebbero, infatti, essere votati gli emendamenti in sintonia con la decisione del Dalai Lama di affidare a un leader eletto dal Popolo la Sua autorità temporale.
Certo la strada del Tibet verso la democrazia è difficile, irta di ostacoli storici e culturali. Ma ormai è tracciata e quella deve essere la direzione. Soprattutto, le difficoltà del passato non possono essere lo specchietto per giustificare l’occupazione illecita del presente. E una politica brutale che ha represso e negato i più elementari diritti.
E’ bene ricordarlo ancora una volta. L’occupazione del Tibet è illegale. Il Tibet nel 1950 era un paese indipendente “de jure e de facto” e le logiche storiche aberranti di Pechino (sulle principesse cinesi andate in sposa a monarchi tibetani o le vicende, nel corso dei secoli, degli imperatori mongoli o manciù) sono ridicoli pretesti per giustificare l’illegittimità di questa invasione. Perché il Tibet serve (economicamente e politicamente) alla Cina. Ma non ne è parte. Né per cultura, né per storia, né per religione, né per linguaggio, né per etnia.
Quindi il fatto che il Dalai Lama abbia rinunciato all’idea di indipendenza per il suo paese – tra l’altro creando non poco disappunto tra una parte significativa della sua gente – e che oggi, alla luce dei fatti, chieda almeno una “genuina autonomia”, pur nel dovuto rispetto per la Sua scelta, non significa rinunciare alla verità storica del diritto per il Tibet alla sua Indipendenza.
Alla fine, quello che auspica il Dalai Lama non è altro che l’applicazione del trattato in 17 punti sottoscritto nel 1951 anche dai cinesi. Trattato che fino a qualche anno fa era visto dai tibetani come un vergognoso sopruso, estorto alla delegazione tibetana a Pechino, messa sotto sequestro. Cose che tutti qui sappiamo bene. Ma è acqua passata. Accettiamolo oggi. Dateci un’autonomia, permettete alla nostra lingua e alla nostra cultura di sopravvivere anche all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Come una delle tante minoranze.
E dateci ciò che il Dalai Lama chiede oggi. Di nuovo e ancora: libertà di espressione e di stampa, liberazione dei prigionieri politici, tutela per il degrado ambientale del “Terzo Polo”, anche a tutela del benessere e del diritto di tutti. E invece NO. Scritti, memorandum, delegazioni mandate a umiliarsi. NO. NO. E ancora NO. Neppure questo va bene.
Separatisti! Indipendentisti! Bugiardi! Lupo vestito da agnello! “Devi dire che il Tibet fa parte della Cina!” “Ok l’ho detto! “Devi dire che Taiwan fa parte della Cina!” “Ok l’ho detto” “Sì ma non l’hai detto bene!” “In realtà lo dici ma sotterraneamente lavori con gli imperialisti occidentali per attentare all’unità della madre patria!” E poi “il Governo Tibetano in Esilio fomenta, le rivolte in Tibet!”
In questo clima di accuse, intimidazioni, soprusi e arresti che continuano – nel silenzio generale, distratto – ci apprestiamo a celebrare questo 52° anniversario dell’insurrezione di Lhasa.
Cosa possono aspettarsi i tibetani in Tibet se non altre sofferenze, altri giorni di incertezza e di libertà negate? Nelle strade capillarmente controllate da telecamere, nei monasteri sotto assedio, nei cuori della popolazione di Lhasa, di Gyantse, Shigatse, Chamdo non vi è posto per la speranza e – non più – per le ennesime celebrazioni. Mentre il terrore di altre feroci repressioni ha oggi paralizzato il Tetto del Mondo, l’Associazione Italia-Tibet si stringe al popolo tibetano nel ricordo dei suoi martiri, silenziosamente plaude al loro coraggio e al loro sacrificio e ricorda che siamo tutti ancora qui per non dimenticare.
E auspicabilmente perché questo nuovo anno – il 2138, della lepre di metallo – finalmente porti, a tutti noi, il cuore e la forza di un leone. Ai tibetani. A chi li sostiene davvero. Vestendo del fragore assordante, trasformativo e determinato dell’azione, il nostro – rispettoso – silenzio.