Dharamsala, 19 maggio 2011. Il Karmapa “non è una spia di Pechino” e le accuse in questo senso “non hanno fondamento”. La sua fuga dal Tibet va collegata “alla mancanza di libertà religiosa nella regione imposta da Pechino”, che avrebbe impedito al giovane leader buddista di completare la sua istruzione spirituale. È il senso del messaggio che lo stesso Karmapa ha inviato al mondo lo scorso 2 maggio 2011, nel corso di una sua visita in Ladak, e pubblicato integralmente da AsiaNews il 18 maggio.
Alla fine di gennaio, infatti, le autorità indiane sono entrate nel monastero di Gyuto, residenza ufficiale del lama: qui hanno sequestrato valuta indiana e straniera per circa 560mila euro. Il denaro era nascosto in sei valige nella stanza di Shakti Lama, che è il braccio destro del 17esimo Karmapa, noto come il “Lama dal Cappello Nero” e visto come uno dei probabili candidati alla guida dei tibetani dopo la morte del Dalai Lama. Questo raid ha fatto nascere delle enormi speculazioni sul suo ruolo e alcune persone lo hanno accusato di lavorare per la Cina. Ecco la sua difesa:
Da qualche tempo, sono apparsi molti interventi sui media che riguardano il nome e l’istituzione del Karmapa Lama. Non ho risposto a questi interventi perché non volevo aizzare un’inutile controversia pubblica durante la fase critica delle indagini. Tuttavia, è arrivato il momento di parlare con molta chiarezza a coloro che ancora nutrono qualche dubbio. Fatemi quindi sottolineare in maniera categorica alcuni punti.
Non sono una spia cinese, un agente o una quinta colonna di Pechino in India. Sono profondamente grato al governo indiano per avermi accolto e dato rifugio in questa grande nazione, e per la cortesia e l’ospitalità che mi sono state riservate sin dal mio arrivo qui. Sono inoltre molto commosso dai gesti di affetto che il popolo indiano ha sempre indirizzato nei miei confronti. L’India, oggi, è la mia casa: non farei mai nulla contro gli interessi di questo Paese o del suo popolo. Infine, il Dalai Lama è il mio leader spirituale e temporale: io sono impegnato solo per il benessere del popolo tibetano.
Dalle speculazioni che ho letto sui giornali, noto che alcune persone ancora si interrogano sul perché, nel dicembre del 1999, io abbia lasciato il Tibet. Su questo argomento, tempo fa, ho concesso diverse interviste: oggi voglio reiterare il fatto che, se fossi rimasto in Tibet, la mia educazione spirituale come 17esimo Karmapa Lama non si sarebbe mai completata. Era necessario e fondamentale, per me, ricevere a voce gli insegnamenti del lignaggio Karmapa, un insegnamento che si è protratto nel tempo tramite una catena ininterrotta che parte proprio dall’India sin dai tempi del Signore Buddha.
Voglio ricordare che le origini del mio lignaggio sono a Naland, dove il grande studioso Naropa ricevette il primo insegnamento dal suo maestro, Mahasiddha Tilopa. A sua volta, Naropa trasmise queste nozioni al suo discepolo Milarepa e da lui a Gampopa, che infine insegnò a Dusum Khyenpa: il primo Karmapa Lama.
Dunque il mio lignaggio è profondamente radicato in India dove il mio predecessore, Sua Santità il 16esimo Karmapa, trovò rifugio prima di me per fondare poi il monastero Rumtek, nel Sikkim. Tutti i guru del mio lignaggio erano in India: se fossi rimasto in Tibet, il governo cinese non mi avrebbe mai permesso di andarli a trovare. Non avrei potuto, d’altra parte, svolgere il mio compito in maniera degna senza la loro guida spirituale. Se fossi rimasto in Tibet, infine, sono convinto che sarei stato costretto a denunciare il Dalai Lama.
Il Tibet si trova sotto il regime totalitario della Cina comunista. A differenza della democratica India, in Cina non esiste libertà religiosa. Molti tibetani, fra cui i capi delle diverse sette del buddismo tibetano, sono stati costretti alla fuga durante la Rivoluzione culturale. Persino oggi arrivano notizie preoccupanti dal Tibet, che riguardano ad esempio i recenti scontri presso il monastero di Kirti che si trova nell’area tibetana di Ngaba, nella provincia del Sichuan. L’auto-immolazione di un giovane monaco chiamato Phuntsok, avvenuta lo scorso 16 marzo, rivela quante tensioni sotterranee siano ancora presenti nella regione. Da decenni, le politiche sbagliate della Cina peggiorano i sentimenti del popolo tibetano.
Alcuni rapporti parlano di un’occupazione militare di Kirti, dove oltre 300 monaci sono stati arrestati e due anziani locali sono morti per le percosse della polizia. Questi rapporti mi fanno temere che, se le autorità non rinunciano all’uso della forza, la situazione possa degenerare in una violenza su larga scala che terminerà con la morte di centinaia di tibetani, disarmati e innocenti. Al momento so che ci sono circa 2200 monaci completamente isolati e che il monastero è bloccato dalle forze di polizia. Al momento, il fato di queste persone è sconosciuto: l’area non può essere visitata da nessuno.
Le frequenti proteste pacifiche messe in atto dai tibetani sono sintomi di una popolazione ferita e spezzata, che chiede con disperazione la restaurazione della propria identità culturale e dei propri diritti, religiosi e umani. Il monastero di Kirti è molto importante per tutti noi e quindi mi unisco all’appello del Dalai Lama, rivolto al governo cinese e alla comunità internazionale, affinché la situazione si risolva presto e in modo pacifico.
Sin dai tempi antichi il Tibet è stato una nazione indipendente. Ha mantenuto rapporti religiosi, culturali e commerciali molto forti con l’India. Il confine che le divide è sempre stato aperto e pacifico, per permettere non soltanto il movimento di merci e persone ma anche il fiorire della civilizzazione umana. Gli indù e i giainisti venerano il monte Kailash e il lago Mansarovar come luoghi di pellegrinaggio. I tibetani considerano l’India la Terra Santa del Buddha, e aspirano a compiere un pellegrinaggio al Bodh Gaya.
Il buddismo è arrivato in Tibet dall’India, e insieme a lui è arrivato molto del linguaggio e della scrittura, che derivano dagli antichi manoscritti locali. Onoriamo i santi e i saggi indiani come Shantaraksita, Padmasambhava, Atisha e tutti quegli altri che sono venuti in Tibet. Gli studiosi e i fedeli di istituzioni rinomate come Nalanda e Vikramasila hanno ispirato molte delle nostre scuole religiose.
Oggi l’India è la nostra seconda casa. La cultura e la religione tibetana sono fiorite nell’atmosfera libera e aperta di questo Paese. L’India ha ospitato il Dalai Lama e moltissimi leader buddisti, che qui hanno aperto e curato diversi monasteri. Il buddismo, la cultura e il modo di vivere dei tibetani hanno trovato nuova vita in India.
Sono convinto che l’India non solo ha salvato dall’estinzione i tibetani e la loro vita, ma ha anche permesso a tutti noi di ispirarci grazie alle terre sacre del Buddha, permettendoci di portare i suoi insegnamenti dove prima erano sconosciuti. Ora prego che questi insegnamenti e la filosofia della non violenza del Mahatma Gandhi, combinati, possano divenire insieme una fonte di armonia e pace per l’intero mondo.
Fonte: AsiaNews