I comunisti di mercato e la repressione

di Ernesto Galli Della Loggia
(Corriere della Sera,19 giugno 2011)

 

Ora è chiaro qual è stato il vero errore che fin dall’inizio ha delegittimato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il comunismo sovietico e il suo sistema, provocandone alla fine il crollo. Non è stato aver messo in piedi un regime spietato di illibertà e di dispotismo. No: è stato aver creduto davvero che nel mondo ci fosse spazio per qualcosa di diverso dal capitalismo. Se l’Urss, infatti, avesse mantenuto i gulag e il Kgb ma lasciato perdere l’abolizione della proprietà privata, il socialismo e tutto il resto, si può essere sicuri che a quest’ora la bandiera rossa sventolerebbe ancora sul Cremlino. E in questa parte del mondo tutti sarebbero felici e contenti. Così come – per l’appunto – tutti sono felici e contenti in Occidente, e perlopiù nessuno ha niente da ridire, quando oggi si nomina la Cina. Il cui partito comunista, da sessant’anni al potere, s’appresta a celebrare in gran pompa, fra pochi giorni, il 90° anniversario della sua fondazione.

Peccato che alla letizia e all’ammirazione generale non sembrino disposti ad unirsi i cinesi stessi, o almeno un buon numero di essi. Con qualche ragione, si direbbe, dal momento che assai spesso per i suoi cittadini quel grande Paese si rivela un vero e proprio inferno. Da tempo, infatti, il ritmo forsennato dello sviluppo economico, trasfigurato da un autentico feticcio ideologico da parte delle autorità comuniste, ha cominciato a produrre tensioni e crisi in misura inimmaginabile: fratture tra regioni e regioni e tra città e campagne, sfruttamento selvaggio della manodopera, migrazioni interne prive del benché minimo ammortizzatore, espulsioni forzate, persecuzioni religiose, abbruttimento sociale diffuso, degrado sanitario, corruzione, abusi e discriminazioni di ogni tipo. A tutto ciò si stanno aggiungendo, negli ultimi tempi, rivelazioni sempre più frequenti circa la spaventosa vastità dei fenomeni di distruzione ambientale, d’inquinamento del territorio e di avvelenamento delle popolazioni, frutto anch’essi di una crescita economica assurta al rango di un Moloch divoratore.

Proprio pochi giorni fa, a proposito di uno di questi casi di avvelenamento da piombo, prodotto da una fabbrica di batteria priva di qualsiasi protezione, il New York Times ha scritto che l’analisi per il 2006 dei dati esistenti fa pensare che almeno un terzo (un terzo!) di tutti i bambini cinesi soffre di un’elevata presenza di piombo nel sangue (con relativi possibili danni gravi al cervello, ai reni, al fegato: fino alla morte). Una percentuale, osserva giustamente il giornale, che in qualunque altro Paese sarebbe considerata una vera “emergenza sanitaria nazionale”.

Ma non in Cina. Qui la risposta del regime comunista a tutte le crisi e a tutte le proteste continua ad essere sempre e innanzitutto una sola: repressione durissima, brutalità poliziesche, anni di carcere e di lager. E naturalmente la censura più rigorosa. Non per nulla l’iscrizione al Pcc comporta tuttora che si giuri di “non rivelare i segreti del partito”. Tra i quali, naturalmente, c’è da annoverare in special modo, oltre che i diffusissimi casi di corruzione dei capi, la situazione del Tibet e delle regioni con popolazione musulmana, ancora e sempre in stati di perenne, latente rivolta.

Questa è la Cina. Certo, in termini produttivi un colosso: la seconda economia mondiale, riserve monetarie pari a circa 3 mila miliardi di dollari, da anni un ritmo di crescita impressionante, con molti ricchi nelle grandi città (le sole che in genere gli occidentali conoscono), ma con un numero ben superiore di persone, altrove e in particolare nelle sterminate campagne, sottoposte a privazioni e angherie terribili. Le quali sfociano sempre più spesso in aperte rivolte: quattro anni fa, scrive Andrea Pira sul Riformista, l’Accademia cinese per le scienze sociali registrò 80 mila “incidenti” del genere, 20 mila in più rispetto all’anno precedente; da allora i dati aggiornati non sono stati più resi pubblici. Un Paese con una classe dirigente politicamente incapace e immobile. Infatti, in tutti questi anni essa si è mostrata bravissima, sì, nel concedere a chi sa e a chi può di sfruttare a piacere la manodopera e le risorse del territorio per produrre ricchezza; si mostra oggi bravissima, sì, con le entrate così ottenute, ad acquistare milioni di ettari in Africa o parti crescenti dei debiti pubblici di altri Stati (ora a quel che sembra anche dell’Italia). Ma – ammesso che ne abbia davvero voglia, e c’è da dubitarne – non mostra invece di avere la minima idea di come fare a passare da un regime dittatoriale, in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di non più di tremila persone, a un assetto capace di dare un minimo di diritti agli individui e un minimo di respiro alla società.

Tutto dunque porta a credere che la Cina, dietro l’apparenza di una forza smisurata e di una fermezza di leadership, sia una realtà in costruzione quanto mai fragile. Nella quale, paradossalmente, proprio lo sviluppo economico forsennato, privo com’è di una guida politica in grado di porgli dei limiti e di indirizzarlo in modo non distruttivo, non fa che aggravare tutti i problemi. È giusto, credo, che chi qui in Italia intrattiene rapporti economici con la Cina, ed è abituato a decantarne i traguardi produttivi e finanziari, non facendo alcun caso a tutto il resto, di ciò si renda conto e ne tragga magari qualche conseguenza. Alla lunga, infatti, non basta la libertà del profitto o la diffusione dei cellulari w dei tailleur Armani a rendere una tirannide più sopportabile.

Ernesto Galli Della Loggia

Corriere della Sera

19 giugno 2011