di Piero Verni
(Il Riformista, 9 Agosto 2011)
Dalle 09,09.09, un numero che la tradizione del Tibet associa alla longevità, di ieri mattina il dottor Lobsang Sangay è ufficialmente il nuovo primo ministro (Kalon Tripa) del governo tibetano in esilio. Nel corso di una affollata cerimonia tenutasi nel tempio principale di Dharamsala, la cittadina dell’India settentrionale divenuta capitale morale della comunità degli esuli, il Dalai Lama ha trasmesso a questo giovane leader nato in esilio 43 anni or sono e mai stato in Tibet, la responsabilità di guidare il popolo tibetano in uno dei più difficili momenti della millenaria storia del Paese delle Nevi.
Nel suo discorso, dopo aver definito l’8 agosto 2011: “… per i tibetani il giorno più importante degli ultimi 2000 anni”, il Dalai Lama ha sottolineato l’importanza che nel 21° secolo debba essere il sistema democratico a guidare la vita delle nazioni e ribadito come questa sua profonda convinzione lo abbia portato a rinunciare ad ogni incarico politico.
Visibilmente emozionato, Lobsang Sangay ha pronunciato un discorso dai toni forti nel quale, pur dichiarandosi deciso a proseguire nella ricerca di un dialogo costruttivo con la Cina Popolare, non sono mancate esplicite accuse al ruolo svolto da Pechino sul Tetto del Mondo.
Parlando direttamente in tibetano, ha ricordato come: “I tibetani sono divenuti cittadini di seconda classe nella loro stessa patria e dopo 60 anni di malgoverno il Tibet è ben lungi dall’essere il Paradiso Socialista che era stato promesso. E’ al contrario una terra di tragedia a causa dell’occupazione cinese”. Ed ha concluso con una vero e proprio appello ai tibetani, dentro e fuori il Tibet, affinché continuino a sperare che un cambiamento positivo della situazione sia possibile anche nel breve periodo. “Siamo sempre pronti ad iniziare questo epico viaggio da Dharamsala, la dimora del Dharma a Lhasa, la dimora degli Dei. Avendo l’unità, l’innovazione e la fiducia come principi guida di sei milioni di tibetani, la vittoria sarà nostra”.
Sembra difficile che Pechino possa reagire positivamente a questo discorso. Già durante la campagna elettorale, quando si profilava la vittoria di Lobsang Sangay, i vertici cinesi avevano bollato il nuovo Kalon Tripa come “terrorista” riferendosi a una sua breve militanza giovanile nelle file del Tibetan Youth Congress, la principale NGO tibetana che non ha mai rinunciato all’obiettivo dell’indipendenza del Tibet. Visto il pugno di ferro con il quale la dirigenza cinese reprime i numerosi focolai di rivolta e di protesta che periodicamente si accendono in Tibet, nell’ex Turkestan Orientale (oggi incorporato nella regione del Xinjang) e nella Mongolia interna, sembra difficile che Pechino possa aprire un effettivo dialogo con un leader in esilio che ieri ha affermato, “Non dimentichiamolo, è in questi anni che la nostra lotta per la libertà potrà ottenere giustizia o essere sconfitta”. Tutto lascia dunque ipotizzare che la volontà di Sangay di, “… negoziare con il governo cinese in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento”, non sia destinata a trovare accoglienza alcuna tra le mura di Zhongnanhai, il complesso di edifici anticamente estensione occidentale della Città Proibita di Pechino e dal 1949 quartier generale del potere comunista.
Se sarà questo lo scenario in cui si troverà ad operare, Lobsang Sangay dovrà in qualche modo prenderne atto e trovare una via d’uscita al “cul de sac” in cui è finita la politica della “Via di Mezzo” perseguita per oltre 30 anni dal Dalai Lama e dai suoi governi. Non si tratta di un’impresa facile, anche perché in Tibet l’insofferenza nei confronti dell’occupazione cinese non accenna a placarsi. Sarà dunque interessante vedere come questo Kalon Tripa laureato ad Harvard penserà di tenere fede alla promessa fatta ieri: “Ai miei fratelli e alle mie sorelle del Tibet dico oggi con fiducia, ci incontreremo presto”.
Piero Verni
(da “Il Riformista” del 9 agosto 2011)