di Piero Verni
(Il Riformista – 17 agosto 2011)
Nonostante le rassicurazioni di Pechino, la situazione nella Regione Autonoma del Tibet e nelle aree tibetane incorporate dal 1965 in alcune province cinesi è tutt’altro che normalizzata a due anni dalla vasta e sanguinosa esplosione di collera della primavera 2008.
Tragica dimostrazione del perdurare di questo stato di crisi è l’immolazione di Tsewang Norbu un giovane monaco del monastero di Nyitso che, alle 12,30 del 15 agosto, si è dato fuoco dopo aver gridato per alcuni minuti slogans inneggianti all’indipendenza del Tibet e al ritorno in patria del Dalai Lama.
Secondo testimonianze attendibili, il cadavere di Tsewang Norbu è stato portato all’interno del monastero per i tradizionali riti funerari buddisti mentre diverse migliaia di soldati e poliziotti cinesi hanno immediatamente circondato il luogo di culto. Nella cittadina di Tawu (Daofu in mandarino), nelle cui vicinanze si trova Nyitso, è stato imposto una sorta di coprifuoco non dichiarato, con la popolazione impedita ad uscire di casa e le strade pattugliate da mezzi blindati e soldati armati. Ma questo imponente apparato repressivo non è riuscito ad impedire che diverse migliaia di tibetani riuscissero a raggiungere i cancelli del monastero per cercare di difendere i monaci da un possibile assalto delle forze di polizia. In alcuni tafferugli avvenuti poco dopo l’immolazione di Tsewang, è stato arrestato un dimostrante di nome Gyaltsen che è stato però liberato dopo poche ore.
La situazione è dunque estremamente tesa in tutta l’area. Ieri mattina è arrivato a Tawu Lui Dao Ping, segretario del Partito Comunista per la Prefettura Autonoma di Kardze, che ha inasprito ancora le restrizioni, decretando la chiusura di scuole, ristoranti e locali pubblici. Inoltre ha ordinato che tutte le funzioni religiose in onore di Tsewang Norbu siano sospese e il corpo del monaco consegnato alle autorità.
Oltre alla storica insofferenza della popolazione tibetana nei confronti dell’occupazione cinese, due recenti episodi sembrano essere alla base dell’estrema protesta. Il primo risale al 6 luglio scorso quando, a oltre diecimila persone tra laici e monaci che si erano raccolte per celebrare il compleanno del Dalai Lama, è stato impedito di portare a compimento i previsti rituali e al monastero di Nyitso, come punizione per aver indetto l’assemblea, è stata tagliata l’acqua corrente e l’elettricità per una settimana. Il secondo episodio è stata la morte, avvenuta il 10 agosto a causa delle torture subite durante la sua detenzione, di Thinley un prigioniero politico tibetano arrestato nell’aprile 2009 per aver distribuito manifestini per la libertà del Tibet.
L’immolazione di Tsewang Norbu è il secondo suicidio politico in meno di cinque mesi che avviene nelle aree tibetane dello Sichuan. Infatti lo scorso 16 marzo si era dato fuoco Phuntsog, un monaco di 20 anni appartenente al monastero di Kirti, nella contea di Ngaba (Aba in mandarino).
E questi sono solo gli episodi più drammatici in cui si è espresso il rifiuto dei tibetani di accettare lo status quo. Se guardiamo alla cronaca degli ultimi anni, è un ininterrotto susseguirsi di grandi e piccoli gesti di insoburdinazione contro il potere di Pechino. Solo una ventina di giorni fa, le autorità cinesi avevano dovuto inghiottire il boccone amaro di una affollatissima riunione tenutasi nel monastero di Lithang nel corso della quale era stata installato sull’altare principale del tempio un enorme dipinto del Dalai Lama. Oltre cinquemila tibetani si erano riuniti per la cerimonia indetta congiuntamente da monasteri di tutte le scuole buddiste del Tibet e da quelli appartenenti all’antica religione Bon.
Eppure, come detto in apertura, di fronte a uno scenario del genere il governo cinese continua a parlare di situazione tranquilla e a ritenere “pochi elementi sovversivi appartenenti alla cricca del Dalai Lama” responsabili di ogni protesta. “Ma quale ‘cricca’ del Dalai Lama”, ha dichiarato al Riformista Claudio Tecchio, coordinatore della Campagna di Solidarietà con il Popolo Tibetano della CISL, “Ad alimentare la disperazione dei tibetani non c’è solo il senso di impotenza di fronte
a un apparato repressivo che stronca sul nascere ogni tentativo di rivolta. Ci sono le estenuanti sessioni di ‘rieducazione patriottica’ che di norma si concludono con la richiesta dell’abiura, c’è la disperante consapevolezza di essere stati abbandonati al loro destino”. Indubbiamente è un po’ difficile ritenere che due immolazioni in meno di sei mesi e la lunga serie di proteste del popolo tibetano possano essere opera di un pugno di cospiratori appartenenti alla “cricca del Dalai Lama”, il quale per altro da decenni invita alla calma e cerca con ogni mezzo un effettivo dialogo con Pechino.
Forse le autorità cinesi, sia regionali sia nazionali, farebbero meglio a interrogarsi sui veri motivi di un tale risentimento. Risentimento che da oltre 60 anni si trasmette inalterato da generazione a generazione. Il ventinovenne Tsewang Norbu che si è dato fuoco l’altro ieri era nato nel 1982, vale a dire più di 30 anni dopo l’invasione del Tibet. Difficile credere che, sobillato da pochi agenti nemici, sognasse il ritorno a quel Tibet feudale ed arcaico che la propaganda di Pechino dipinge come un vero inferno sulla terra. Più probabile che lui, come il ventenne Phuntsog, come il venticinquenne Thinley, come gli altri martiri della resistenza tibetana non ne potesse più di vivere sotto il dominio coloniale cinese.
Per questo Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, sostiene che: “Quella di Norbu è l’ennesima risposta a tutti i tentativi propagandistici che mirano a dipingere l’occupazione del Tibet come una liberazione”.
In effetti un popolo liberato dovrebbe rispondere con la gratitudine. Non immolandosi col fuoco.
Piero Verni
(Pubblicato su Il Riformista – 17 agosto 2011)