di Piero Verni
Il Riformista, 27 settembre 2011
Ieri mattina alle 10,30 (ora locale) altri due monaci tibetani si sono dati alle fiamme per protestare contro la repressione cinese in Tibet. Lobsang Kelsang e Lobsang Kunchok, entrambi diciottenni e residenti nel monastero di Kirti situato nella contea di Ngaba (area tibetana dello Sichuan), sono arrivati al locale mercato e dopo aver gridato slogan inneggianti alla libertà religiosa e al ritorno in patria del Dalai Lama, si sono dati fuoco. Agenti della Polizia Armata, che ormai da tre anni pattugliano in forze la zona, sono intervenuti immediatamente catturando i due giovani e portandoli in una località sconosciuta. Fonti attendibili affermano che uno dei due giovani è morto sul luogo dell’immolazione mentre le condizioni dell’altro sono ritenute disperate.
Il monastero di Kirti è praticamente sotto assedio da quando il 16 marzo di quest’anno il monaco Lobsang Phuntsok (cugino di Lobsang Kelsang) morì dopo essersi bruciato vivo per protesta. La comunità monastica è esasperata per il permanente clima di intimidazioni poliziesche e le continue repressioni. Proprio il 10 settembre tre monaci sono stati condannati a diversi anni di lavori forzati. I tre, Lobsang Dhargye, Tsekho e Dorjee, erano stati arrestati il 12 aprile per essere in qualche modo connessi con l’immolazione avvenuta il 16 marzo.
Con i due giovani di ieri è dunque salito a quattro il numero di monaci che si sono sacrificati per la libertà del Tibet. Infatti, il 15 agosto era morto per ustioni anche Tsewang Norbu del monastero di Nyitso, situato nella Prefettura Autonoma di Karze sempre nello Sichuan. Questi tragici avvenimenti dimostrano quanto sia tesa la situazione sociale sia nella Regione Autonoma del Tibet sia nelle aree tibetane inglobate nel 1965 nelle adiacenti provincie cinesi. Nonostante il Dalai Lama e la sua amministrazione in esilio abbiano più volte esortato monaci e laici alla calma e disapprovato questa tragica forma di contestazione, le immolazioni col fuoco continuano e la tensione è alle stelle. Secondo molti testimoni a Lhasa e in molte altri luoghi i militi della Polizia Armata hanno tutti un estintore nella dotazione d’ordinanza.
Questa terribile sequenza di suicidi e repressioni sembra allontanare sempre di più l’ipotesi di un autentico colloquio tra il Dalai Lama e Pechino. Nei giorni scorsi lo stesso leader tibetano, parlando della sua futura incarnazione, ha usato toni particolarmente duri riguardo il tentativo delle autorità cinesi di dettare legge in una materia che dovrebbe essere di sua esclusiva competenza. “Oggi gli autoritari governanti della Repubblica Popolare Cinese, che in quanto comunisti dovrebbero rifiutare i dogmi religiosi, vogliono imporre le loro scelte nell’ambito della sfera religiosa”, ha dichiarato il Dalai Lama sabato nel corso di un importante assemblea di maestri spirituali tenutasi in India. “Imporre le loro leggi per quanto concerne la scelta delle reincarnazioni è una precisa strategia per ingannare i fedeli buddisti e la comunità internazionale. E’ una cosa indecente e vergognosa”. Parole molte chiare e forti che da molto tempo l’Oceano di Saggezza evitava di pronunciare nel tentativo di portare Pechino ad un tavolo negoziale. Ma evidentemente anche Sua Santità e l’Amministrazione Tibetana in Esilio cominciano a rendersi conto che la possibilità di instaurare con la dirigenza cinese un effettivo colloquio è pura utopia. E infatti la reazione di Pechino a queste dichiarazioni del leader tibetano non si è fatta attendere. In una conferenza tenuta a Pechino ieri, Hong Lei portavoce del Ministro degli Esteri, ha attaccato le dichiarazioni del Dalai Lama dicendo che mai nella storia un Dalai Lama aveva scelto il suo successore e che lo stesso titolo di Dalai Lama deve essere conferito dal governo centrale. Altrimenti è illegale.
Nello scorsa primavera, proprio per scongiurare problemi relativi al riconoscimento della sua futura incarnazione, il Dalai Lama aveva rinunciato ai suoi poteri politici che aveva trasferito al nuovo capo del governo tibetano in esilio, Lobsang Sangay, eletto in marzo dopo democratiche consultazioni svoltesi tra la comunità dei rifugiati sia in India sia in altre parti del mondo. Oggi quindi, almeno da un punto di vista formale, il Dalai Lama si trova a essere solo la principale autorità spirituale del popolo tibetano e non più il leader politico.
Evidentemente questo passaggio di consegne non ha però convinto Pechino che ben conosce quanto sia importante la figura del Dalai Lama per i tibetani. E quindi, dopo aver già insediato, una decina di anni or sono, un Panchen Lama di regime, si prepara a ripetere l’operazione quando il presente Dalai Lama “lascerà il corpo”.
Essendo questa la realtà del Tibet occupato, non c’è da stupirsi se nello Sichuan continuano ad accendersi quelle povere torce umane.
Piero Verni
“Il Riformista”, 27-09-2011