28 dicembre 2011 (International Business Times). Chen Xi, noto dissidente cinese di 57 anni, è stato condannato a 10 anni di reclusione per “incitamento alla sovversione contro il potere statale”. Alla pena principale si aggiunge, come pena accessoria, la privazione per 3 anni dei diritti politici. Dal reato contestato a Chen Xi verrebbe da pensare ad un rivoluzionario che, armi in pugno, ha tentato di conquistare il potere. Niente di tutto ciò è accaduto, la colpa di quest’uomo è stata quella di pubblicare sul web 36 articoli in cui criticava il governo cinese e la scarsa libertà che viene garantita ai suoi concittadini.
Non è la prima volta che lo spirito critico di Chen Xi lo porta dinanzi ad un’aula di tribunale: nel 1989 era stato condannato a 3 anni di carcere per aver partecipato al movimento democratico di Tienanmen, represso nel sangue dalla Commissione militare centrale, che per riconquistare il controllo del territorio causò la morte di 2.600 persone; nel 1995 era stato nuovamente condannato a 10 anni di carcere per sovversione. Questa è dunque la terza condanna emessa in appena due ore e mezza da un giudice che ha impedito a Chen Xi di fare una dichiarazione finale, come previsto dalla legge cinese.
Con questa sentenza si ripete un copione utilizzato più volte dai magistrati cinesi che, approfittando della distrazione della comunità internazionale nei giorni di Natale, adotta delle decisioni che privano la popolazione della propria libertà di espressione. Il 25 dicembre 2009 il premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo, è stato condannato a 11 anni di reclusione per aver partecipato al movimento Charta 08, un manifesto sottoscritto e pubblicato online da 303 attivisti per i diritti umani cinesi, allo scopo di promuovere una serie di riforme politiche volte alla democratizzazione della Repubblica popolare cinese. Questo movimento, a cui ha preso parte anche Chen Xi, non è l’unica cosa che accomuna questi due dissidenti; infatti, entrambi sono stati condannati per lo stesso reato: “incitamento alla sovversione contro il potere statale”.
Entrambe le condanne debbono far riflettere sull’immagine che Pechino vuol dare di sé. Parlando di questo grande Paese asiatico, tutti pensano alla sua florida economia, alla scritta “made in China” che appare sulla stragrande maggioranza dei prodotti che noi tutti utilizziamo, indossiamo. Purtroppo, però, la realtà è molto lontana dalle Olimpiadi 2008. La Repubblica popolare cinese non riconosce alcuna libertà politica ai suoi cittadini. Gli organi addetti all’amministrazione della giustizia svolgono il loro compito in modo sommario e sotto l’influenza del governo centrale. Una volta emessa la condanna il reo deve scontarla in una delle tante prigioni di questa immensa nazione in cui trova applicazione il Logai, che tradotto significa “riforma attraverso il lavoro”.
A differenza dei detenuti italiani che, secondo la legge, debbono essere ammessi a svolgere dei lavori retribuiti in modo da poter garantire il loro reinserimento nella collettività, in Cina i carcerati vengono utilizzati come manodopera a costo zero, una pratica ampiamente criticata dalla comunità internazionale che sottolinea le condizioni disumane di lavoro che fanno assomigliare i detenuti a degli schiavi. La Cina è inoltre nota in tutto il mondo per i suoi problemi demografici, risolti con una legge che ha fatto molto discutere gli attivisti per i diritti umani: “La Legge eugenetica e protezione della salute”, detta anche “legge del figlio minore”. La norma prevede che ogni coppia può avere un solo figlio nelle zone urbane e due figli nelle zone rurali. Violato il provvedimento, tuttavia, il reato è risanabile pagando una ingente multa. Ne deriva che, effettivamente, solo le famiglie più povere debbono sottostare a questo contingentamento.
Quanto detto fin ora è solo un esempio di ciò che accade in Cina. La condanna emessa nei confronti di Chen Xi rende molto attuali le parole di Stefano Bartolini, docente di economia presso l’università di Siena, che nel testo “Manifesto per la felicità” scriveva: “Il PIL non è l’unico indicatore che dobbiamo guardare per valutare il benessere di un paese”. “La cultura consumista consiste nel dare grande importanza alle motivazioni estrinseche e bassa importanza alle motivazioni intrinseche. Questa cultura ci ha fatto perdere di vista i beni veramente importanti, come le relazioni. Da questo bisogna concludere che non è tanto lo sviluppo che conta per il benessere, quanto la sua qualità sociale”.
di Stefano Consiglio
Fonte: International Business Times, 28 dicembre 2011