di Marco Del Corona
Corriere della Sera, 10 gennaio 2012
Il Tibet non brucia, a bruciare sono i tibetani. Un monaco del Qinghai (regione che appartiene all’area del Tibet storico), si è immolato domenica alle 6 del mattino, cospargendosi di kerosene e deglutendone sorsate, prima di darsi fuoco. Un venerato “Buddha vivente”, Tulku Sonam Wangyal, la cui morte è stata rivelata dall’autoproclamato governo tibetano in esilio e da Radio Free Asia ma confermata anche dall’agenzia cinese Xinhua. Macabri i dettagli riportati dalla radio, come il corpo che “esplodeva in pezzi”. Quando la polizia ha preso in consegna il cadavere, una folla di tibetani ha assediato il comando per reclamare le spoglie. Che sono state poi esibite in corteo. “E’ il primo suicidio di un lama reincarnato”, nota l’organizzazione International Campaign for Tibet che denuncia “una correlazione diretta fra la repressione del buddhismo tibetano da parte del Partito comunista e l’immolazione di Tulku Sonam Wangyal”, che aveva 42 anni.
L’autoimmolazione è almeno la quindicesima dal marzo dell’anno scorso ed è stata preceduta da altri due atti analoghi, uno fatale e l’altro no, avvenuti venerdì nella contea di Aba, area del Sichuan dove i sentimenti anticinesi e la lealtà al Dalai Lama, capo spirituale del buddhismo tibetano, si manifestano con particolare intransigenza. In tutti i casi di questi dieci mesi si è trattato di persone devote, non solo monaci o monache, che spesso hanno pronunciato frasi a sostegno della libertà per il Tibet e del Dalai Lama. Circa metà sono rimasti uccisi. Le autorità di Pechino hanno risposto all’escalation con restrizioni all’accesso alle zone interessate e inasprendo i controlli mentre i suicidi e i tentati suicidi hanno ricevuto il marchio di gesti di “terrorismo” provocati dal Dalai Lama. Proprio a proposito del premio Nobel per la Pace, tra l’altro, nei giorni scorsi la stampa indiana scriveva di un manipolo di agenti infiltrati dalla Cina oltreconfine per eliminarlo.
La tensione in Tibet (e in angoli del Gansu, del Qinghai e del Sichuan) innervosisce una Cina che proprio ieri, sul fronte esterno, ha reagito alla nuova strategia Usa nel Pacifico avvertendo Washington di “fare attenzione alle proprie parole e alle proprie azioni”. Oltre alle manovre di polizia e di prevenzione tra i tibetani, Pechino ha intensificato l’“educazione patriottica” impartita ai religiosi e le iniziative di “commissariamento” dei monasteri. In uno di questi, l’insofferente lamaseria di Kirti, in novembre era andato in visita il potente ministro della Pubblica Sicurezza, Meng Jianzhu.
Tuttavia si registra anche il tentativo di mostrare il volto generoso del potere. I progetti di sviluppo abbondano. Il segretario del Partito comunista in Tibet, Chen Quanguo (il numero uno della regione è sempre stato cinese, mai locale) l’anno scorso aveva annunciato misure di welfare estese ai monaci. Lo stesso Chen ha sostenuto che i funzionari debbano parlare la lingua locale, come testimonia tra l’altro il piano di scuole guida in tibetano riportato in questi giorni dai media. Per la posizione di segretario del Partito di Lhasa, il capoluogo, è stata ripristinata la vecchia consuetudine di affidarla a un tibetano: a fine 2011 il posto è andato a Che Dalha, proveniente dalla porzione tibetana dello Yunnan, uomo rispettato dalla sua comunità. Anche se – avvertono i gli attivisti – non c’è alcun elemento che faccia pensare a un ammorbidimento di Pechino riguardo la questione tibetana.
di Marco Del Corona
Corriere della Sera, 10 gennaio 2012