Intervista a Lobsang Sangay

“SALVATECI DALL’OPPRESSIONE CINESE”

Intervista a Lobsang Sangay

di Simone Casalini

 Corriere del Trentino (Corriere della Sera)

22 febbraio 2012

TRENTO — Dal 1950 la Cina ha allungato il suo corpo politico e istituzionale sul Tibet rivendicandolo come proprio spazio territoriale o opponendo, più prosaicamente, i suoi interessi geopolitici ed economici. Nove anni più tardi il Dalai Lama e la sua corte, seguiti nel tempo da altri esuli, hanno avviato la diaspora accolti nell’allora India nehruviana. Sessant’anni e oltre sono corsi via lungo i maestosi fiumi che sbocciano sui proclivi del Tetto del mondo, ma nulla è cambiato. Se non l’aggressività di una colonizzazione che ogni giorno si ciba di restrizioni, divieti, persecuzioni e di un’incisiva politica di incentivo al trasferimento della popolazione di etnia han nell’immenso plateau himalayano. «Come m’immagino il Tibet? Un luogo bellissimo, con montagne imponenti e una popolazione ridotta allo stremo. E tale è la condizione di sofferenza che alcuni preferiscono la morte alla vita», riferimento esplicito ai monaci e alle monache (ma non solo) che imboccano la via dell’autoimmolazione per dare un senso alla loro resistenza. Lobsang Sangay, kalon tripa (primo ministro) del governo tibetano in esilio, può ricorrere solo alla fantasia per raffigurare i profili della sua patria. È nato nel 1968 a Darjeeling, in India, figlio di esuli. Lassù, tra i monasteri che traboccano cultura e civiltà, non ha mai messo piede. «Ma spero di riportarci il Dalai Lama quando verrà ripristinata la libertà» afferma al telefono dalla sua abitazione di Boston. Giurista e docente ad Harvard, Sangay ha vinto le elezioni nel 2011 tra i tibetani in esilio raccogliendo il testimone politico devoluto dal Dalai Lama. Lunedì e martedì sarà a Bolzano e Trento per la sua prima visita ufficiale in Italia.
Primo ministro Sangay, per la prima volta dal 1642 il Dalai Lama ha rinunciato al poterepolitico a vantaggio di un laico. Qual è la sua ambizione e quali gli obiettivi di breve e lungo termine?
«Per prima cosa devo ringraziare sua santità il Dalai Lama che ha scelto di devolvere il suo potere politico e che continua a sostenerci. Lui è il nostro leader spirituale e rimane sempre il primo riferimento per tutti i tibetani. La mia ambizione, che poi è il mio obiettivo di lungo termine, è quella ristabilire la libertà in Tibet e di consentire al Dalai Lama di tornarci. Questo significherebbe anche la fine delle sofferenze di un popolo. Nel breve termine coltivo due propositi: proseguire il lavoro di sensibilizzazione a livello internazionale della nostra causa e promuovere l’istruzione e l’educazione delle giovani generazioni perché loro sono il nostro futuro».
Che cosa spinge un giurista apprezzato e un intellettuale ad assumersi una simile responsabilità? Una curiosità: è vero che il suo «stipendio» da kalon tripa in India è di 300 dollari al mese?
(ride) «Sì certo, ma va bene così. Dopo la laurea all’Università di Delhi e gli studi ad Harvard con l’avvio della carriera accademica, ho sentito l’esigenza di fare qualcosa di concreto per il mio popolo. Avrei potuto condurre unavitanoiosaenormale da docente, invece mi sono messo al servizio della causa tibetana e sono tornato a vivere in India (si divide tra Delhi e Dharamsala, sede del governo in esilio, ndr). È quello che desideravo».
Lei è stato eletto dai tibetani in esilio, ma la maggior parte vive ancora in Tibet dove a lei è vietato l’ingresso. Hanno accettato la decisione del Dalai Lama di ritirarsi? Non è difficile rappresentare qualcuno che lei stesso non ha la possibilità di incontrare?
«Il Dalai Lama resta sempre la nostra guida spirituale e i tibetani prendono insegnamento da lui per tutto. Ma ha deciso di delegare il potere politico ad una persona eletta democraticamente. Questo significa che ho la sua benedizione e la legittimazione necessaria per portare avanti questo incarico. I miei rapporti con le persone, quelle che posso incontrare, sono eccellenti: mi abbracciano, mi stringono la mano, si mettono a piangere. Siamo uniti nella stessa battaglia».
Parlando del Tibet si fa spesso riferimento al genocidio culturale e alle drammatiche condizioni di vita. Ce le può raccontare?
«La popolazione vive quotidianamente una situazione di sofferenza, dolore, repressione, assenza totale di libertà e dignità. È in atto un processo di assimilazione
che passa per la distruzione di una cultura e un’identità. I militari presidiano tutti le principali città e i monasteri dove la vita viene resa impossibile. Persino possedere una foto del Dalai Lama è vietato e severamente punito. Per tuti questi motivi ci sono persone che preferiscono morire piuttosto che vivere».
Domenica un diciottenne, un laico questa volta, si è dato fuoco per protestare contro il regime di Pechino. È la venticinquesima persona che s’immola dal marzo dello scorso anno, in massima parti monaci e monache.
«Monaci e monache sono spinti a questi gesti estremi di sacrificio a causa dell’oppressione del governo cinese, dalle condizioni di vita insopportabili. Per loro e per noi è una situazione estremamente penosa».
Il buddhismo, inoltre, non permette suicidio e atti di violenza che influenzano il karma e la reincarnazione. Un problema filosofico e religioso molto sentito all’interno della comunità buddhista. Lei come lo giudica?
«Il tema è molto complesso, ci sono diverse interpretazioni. Il buddhismo è contrario ad ogni atto o forma di violenza. Però spesso i gesti vanno valutati per le ragioni che stanno a monte. L’autoimmolazione è un’azione tragica e dolorosa. Se è spinta da rabbia e odio non è accettabile, ma se viene fatta per una giusta causa allora credo sia diverso. È un argomento complicato, non esiste una lettura univoca. Resta la responsabilità incontrovertibile del governo cinese».
Cosa sta facendo per scoraggiare queste forme di sacrificio? «Il Dalai Lama ed io abbiamo sempre invitato il popolo tibetano a non compiere queste azioni. E continueremo a scoraggiarli. Personalmente mi battoquotidianamente in tutte le sedi facendo dichiarazioni a favore della causa tibetana al fine di fare sentire la mia vicinanza».
La sua elezione va letta in filigrana anche con la sfida per la successione al Dalai Lama. Se i cinesi riusciranno a scegliere il futuro leader sarà comunque privo del potere politico. Per questo quando Tenzin Gyatso ha annunciato la devolution, Pechino ha contestato la decisione difendendo l’istituto della reincarnazione. Come analizza questo passaggio?
«La Cina rammenta al Dalai Lama che la sua successione deve essere decisa dalla reincarnazione (Pechino controlla la seconda figura del buddhismo tibetano, il Panchen Lama, dopo aver fatto sparire quello riconosciuto dal Dalai Lama. Il Panchen Lama ha normalmente un ruolo nel riconoscimento del Dalai Lama reincarnato, ndr). Tutto questo è incredibile. La Cina ha un governo comunista, non credono nella religione. E la religione, come si sa, ha alla sua base un problema di fede: o credi o non credi. Non è accettabile che per ragioni strumentali, ossia la nomina del prossimo Dalai Lama, si finga paladina della tradizione tibetana».
Qualche anno fa il Dalai Lama ha abbandonato la strategia dell’indipendenza per abbracciare la «Via di Mezzo», un’autonomia reale all’interno dello Stato cinese. Ma i frutti sono stati modesti. Molti esponenti delle giovani generazioni hanno posizioni più radicali e intraprendenti. Qual è la sua e come pensa di mediare? «Credo nella “Via di Mezzo”, come sua santità, e penso che questo sia il percorso che abbiamo davanti. Spero di riuscire a far comprendere anche a chi ha posizioni radicali che questa può essere la strada giusta».
Intanto arriva a Trento e Bolzano, dove era già stato nel 2009 per una conferenza durante l’ultima visita del Dalai Lama, per il suo primo viaggio ufficiale in Italia. Cosa si aspetta? È d’accordo con il Dalai Lama che il Trentino-Alto Adige potrebbe essere un modello per il Tibet?
«Considero il Trentino-Alto Adige un esempio utile per la nostra causa. La Stato italiano è uno, unico ma ciò non ha impedito il formarsi al suo interno di una struttura giuridico-politica autonoma espressione di un popolo con una propria cultura e identità. È quello che chiediamo noi. Vengo per ricercare la fratellanza e l’amicizia di Trento e Bolzano e del popolo italiano».
La causa tibetana suscita molte simpatie, ma è innegabile che la Cina ha la capacità di condizionare gli orientamenti del mondo. Ha in mano parte del debito americano, gli Stati europei guardano a lei per rilanciare le proprie economie. La sua influenza politica ed economica ormai non ha confini: dall’Asia all’Africa. Realisticamente come pensa di poter cambiare questa situazione?
«Le relazioni economiche sono molto importanti, non lo metto in dubbio, ma lo sono anche i diritti umani. E vanno difesi perché sono principi universali della convivenza pacifica tra i popoli. Senza libertà e dignità nulla di tutto ciò può esistere. Per questo invito i Paesi occidentali a considerare giustamente i loro interessi economici, ma anche a spendersi per la difesa dei diritti umani».
Come valuta la primavera araba e in che misura può ispirarvi?
«Non citerei solo la primavera araba. Ma anche la rivoluzione arancione in Ucraina, la guerra d’indipendenza indiana, la lotta di Nelson Mandela in Sudafrica: sono tutti movimenti a cui possiamo ispirarci perché hanno al loro fondo la richiesta di libertà».
Xi Jinping sarà probabilmente il successore di Hu Jintao alla presidenza della Cina. Cosa si aspetta?
«Mi auguro che Xi sia espressione di un nuovo pensiero, di un nuovo modo d’agire e di una nuova politica per il Tibet. Sappiamo, naturalmente, che le cose possono cambiare anche in peggio. Vedremo».
Lei non è mai stato in Tibet e la Cina le nega l’accesso. Come se lo immagina?
«Lo immagino come un Paese bellissimo, con montagne imponenti, ma anche con gravi problemi politici e ambientali e dove quotidianamente ci sono sofferenze immense. Un giorno, spero di potermi recare in Tibet insieme al Dalai Lama, significherebbe che la libertà è stata riconquistata».
TRENTO — Dal 1950 la Cina ha allungato il suo corpo politico e istituzionale sul Tibet rivendicandolo come proprio spazio territoriale o opponendo, più prosaicamente, i suoi interessi geopolitici ed economici. Nove anni più tardi il Dalai Lama e la sua corte, seguiti nel tempo da altri esuli, hanno avviato la diaspora accolti nell’allora India nehruviana. Sessant’anni e oltre sono corsi via lungo i maestosi fiumi che sbocciano sui proclivi del Tetto del mondo, ma nulla è cambiato. Se non l’aggressività di una colonizzazione che ogni giorno si ciba di restrizioni, divieti, persecuzioni e di un’incisiva politica di incentivo al trasferimento della popolazione di etnia han nell’immenso plateau himalayano. «Come m’immagino il Tibet? Un luogo bellissimo, con montagne imponenti e una popolazione ridotta allo stremo. E tale è la condizione di sofferenza che alcuni preferiscono la morte alla vita», riferimento esplicito ai monaci e alle monache (ma non solo) che imboccano la via dell’autoimmolazione per dare un senso alla loro resistenza. Lobsang Sangay, kalon tripa (primo ministro) del governo tibetano in esilio, può ricorrere solo alla fantasia per raffigurare i profili della sua patria. È nato nel 1968 a Darjeeling, in India, figlio di esuli. Lassù, tra i monasteri che traboccano cultura e civiltà, non ha mai messo piede. «Ma spero di riportarci il Dalai Lama quando verrà ripristinata la libertà» afferma al telefono dalla sua abitazione di Boston. Giurista e docente ad Harvard, Sangay ha vinto le elezioni nel 2011 tra i tibetani in esilio raccogliendo il testimone politico devoluto dal Dalai Lama. Lunedì e martedì sarà a Bolzano e Trento per la sua prima visita ufficiale in Italia.
Primo ministro Sangay, per la prima volta dal 1642 il Dalai Lama ha rinunciato al poterepolitico a vantaggio di un laico. Qual è la sua ambizione e quali gli obiettivi di breve e lungo termine?
«Per prima cosa devo ringraziare sua santità il Dalai Lama che ha scelto di devolvere il suo potere politico e che continua a sostenerci. Lui è il nostro leader spirituale e rimane sempre il primo riferimento per tutti i tibetani. La mia ambizione, che poi è il mio obiettivo di lungo termine, è quella ristabilire la libertà in Tibet e di consentire al Dalai Lama di tornarci. Questo significherebbe anche la fine delle sofferenze di un popolo. Nel breve termine coltivo due propositi: proseguire il lavoro di sensibilizzazione a livello internazionale della nostra causa e promuovere l’istruzione e l’educazione delle giovani generazioni perché loro sono il nostro futuro».
Che cosa spinge un giurista apprezzato e un intellettuale ad assumersi una simile responsabilità? Una curiosità: è vero che il suo «stipendio» da kalon tripa in India è di 300 dollari al mese?
(ride) «Sì certo, ma va bene così. Dopo la laurea all’Università di Delhi e gli studi ad Harvard con l’avvio della carriera accademica, ho sentito l’esigenza di fare qualcosa di concreto per il mio popolo. Avrei potuto condurre unavitanoiosaenormale da docente, invece mi sono messo al servizio della causa tibetana e sono tornato a vivere in India (si divide tra Delhi e Dharamsala, sede del governo in esilio, ndr). È quello che desideravo».
Lei è stato eletto dai tibetani in esilio, ma la maggior parte vive ancora in Tibet dove a lei è vietato l’ingresso. Hanno accettato la decisione del Dalai Lama di ritirarsi? Non è difficile rappresentare qualcuno che lei stesso non ha la possibilità di incontrare?
«Il Dalai Lama resta sempre la nostra guida spirituale e i tibetani prendono insegnamento da lui per tutto. Ma ha deciso di delegare il potere politico ad una persona eletta democraticamente. Questo significa che ho la sua benedizione e la legittimazione necessaria per portare avanti questo incarico. I miei rapporti con le persone, quelle che posso incontrare, sono eccellenti: mi abbracciano, mi stringono la mano, si mettono a piangere. Siamo uniti nella stessa battaglia».
Parlando del Tibet si fa spesso riferimento al genocidio culturale e alle drammatiche condizioni di vita. Ce le può raccontare?
 «La popolazione vive quotidianamente una situazione di sofferenza, dolore, repressione, assenza totale di libertà e dignità. È in atto un processo di assimilazioneche passa per la distruzione di una cultura e un’identità. I militari presidiano tutti le principali città e i monasteri dove la vita viene resa impossibile. Persino possedere una foto del Dalai Lama è vietato e severamente punito. Per tuti questi motivi ci sono persone che preferiscono morire piuttosto che vivere».
Domenica un diciottenne, un laico questa volta, si è dato fuoco per protestare contro il regime di Pechino. È la venticinquesima persona che s’immola dal marzo dello scorso anno, in massima parti monaci e monache.
 «Monaci e monache sono spinti a questi gesti estremi di sacrificio a causa dell’oppressione del governo cinese, dalle condizioni di vita insopportabili. Per loro e per noi è una situazione estremamente penosa».
Il buddhismo, inoltre, non permette suicidio e atti di violenza che influenzano il karma e la reincarnazione. Un problema filosofico e religioso molto sentito all’interno della comunità buddhista. Lei come lo giudica?
 «Il tema è molto complesso, ci sono diverse interpretazioni. Il buddhismo è contrario ad ogni atto o forma di violenza. Però spesso i gesti vanno valutati per le ragioni che stanno a monte. L’autoimmolazione è un’azione tragica e dolorosa. Se è spinta da rabbia e odio non è accettabile, ma se viene fatta per una giusta causa allora credo sia diverso. È un argomento complicato, non esiste una lettura univoca. Resta la responsabilità incontrovertibile del governo cinese».
Cosa sta facendo per scoraggiare queste forme di sacrificio?
  «Il Dalai Lama ed io abbiamo sempre invitato il popolo tibetano a non compiere queste azioni. E continueremo a scoraggiarli. Personalmente mi battoquotidianamente in tutte le sedi facendo dichiarazioni a favore della causa tibetana al fine di fare sentire la mia vicinanza».
La sua elezione va letta in filigrana anche con la sfida per la successione al Dalai Lama. Se i cinesi riusciranno a scegliere il futuro leader sarà comunque privo del potere politico. Per questo quando Tenzin Gyatso ha annunciato la devolution, Pechino ha contestato la decisione difendendo l’istituto della reincarnazione. Come analizza questo passaggio?
 «La Cina rammenta al Dalai Lama che la sua successione deve essere decisa dalla reincarnazione (Pechino controlla la seconda figura del buddhismo tibetano, il Panchen Lama, dopo aver fatto sparire quello riconosciuto dal Dalai Lama. Il Panchen Lama ha normalmente un ruolo nel riconoscimento del Dalai Lama reincarnato, ndr). Tutto questo è incredibile. La Cina ha un governo comunista, non credono nella religione. E la religione, come si sa, ha alla sua base un problema di fede: o credi o non credi. Non è accettabile che per ragioni strumentali, ossia la nomina del prossimo Dalai Lama, si finga paladina della tradizione tibetana».
Qualche anno fa il Dalai Lama ha abbandonato la strategia dell’indipendenza per abbracciare la «Via di Mezzo», un’autonomia reale all’interno dello Stato cinese. Ma i frutti sono stati modesti. Molti esponenti delle giovani generazioni hanno posizioni più radicali e intraprendenti. Qual è la sua e come pensa di mediare?
 «Credo nella “Via di Mezzo”, come sua santità, e penso che questo sia il percorso che abbiamo davanti. Spero di riuscire a far comprendere anche a chi ha posizioni radicali che questa può essere la strada giusta».
Intanto arriva a Trento e Bolzano, dove era già stato nel 2009 per una conferenza durante l’ultima visita del Dalai Lama, per il suo primo viaggio ufficiale in Italia. Cosa si aspetta? È d’accordo con il Dalai Lama che il Trentino-Alto Adige potrebbe essere un modello per il Tibet?
 «Considero il Trentino-Alto Adige un esempio utile per la nostra causa. La Stato italiano è uno, unico ma ciò non ha impedito il formarsi al suo interno di una struttura giuridico-politica autonoma espressione di un popolo con una propria cultura e identità. È quello che chiediamo noi. Vengo per ricercare la fratellanza e l’amicizia di Trento e Bolzano e del popolo italiano».
La causa tibetana suscita molte simpatie, ma è innegabile che la Cina ha la capacità di condizionare gli orientamenti del mondo. Ha in mano parte del debito americano, gli Stati europei guardano a lei per rilanciare le proprie economie. La sua influenza politica ed economica ormai non ha confini: dall’Asia all’Africa. Realisticamente come pensa di poter cambiare questa situazione?
«Le relazioni economiche sono molto importanti, non lo metto in dubbio, ma lo sono anche i diritti umani. E vanno difesi perché sono principi universali della convivenza pacifica tra i popoli. Senza libertà e dignità nulla di tutto ciò può esistere. Per questo invito i Paesi occidentali a considerare giustamente i loro interessi economici, ma anche a spendersi per la difesa dei diritti umani».
Come valuta la primavera araba e in che misura può ispirarvi?
«Non citerei solo la primavera araba. Ma anche la rivoluzione arancione in Ucraina, la guerra d’indipendenza indiana, la lotta di Nelson Mandela in Sudafrica: sono tutti movimenti a cui possiamo ispirarci perché hanno al loro fondo la richiesta di libertà».
Xi Jinping sarà probabilmente il successore di Hu Jintao alla presidenza della Cina. Cosa si aspetta?
«Mi auguro che Xi sia espressione di un nuovo pensiero, di un nuovo modo d’agire e di una nuova politica per il Tibet. Sappiamo, naturalmente, che le cose possono cambiare anche in peggio. Vedremo».
Lei non è mai stato in Tibet e la Cina le nega l’accesso. Come se lo immagina?«Lo immagino come un Paese bellissimo, con montagne imponenti, ma anche con gravi problemi politici e ambientali e dove quotidianamente ci sono sofferenze immense. Un giorno, spero di potermi recare in Tibet insieme al Dalai Lama, significherebbe che la libertà è stata riconquistata».
Simone Casalini