I martiri del Tibet sfidano la Cina

di Vittorio Zucconi

La Repubblica, 27 marzo 2012

 

 

Morire senza uccidere altri, soltanto per testimoniare la propria fede o la propria disperazione, come il giovane monaco tibetano Jampa Yeshi nel falò di se stesso. E’ la definizione del martirio vero. Non c’è stato neppure bisogno di attendere l’avvento di internet, che ha subito reso “virale”, dunque visto da milioni di persone, la smorfia di questo tibetano di ventisette anni immolatosi per segnalare ancora una volta l’infamia dell’oppressione cinese nel Tibet. Il suo volto distorto in uno spasmo orrifico che sembra grottescamente un sorriso si aggiunge a una galleria di immagini che esplosero per la prima volta nella coscienza del mondo cinquant’anni or sono, nel falò del “bonzo”, come allora erano definiti, Quang Duc, in una strada di Saigon per protestare contro il despota cattolico Ngo Dinh Diem, poi fatto fuori per ordine di Washington.

In un tempo lontano, nei villaggi della Russia ortodossa e negli angoli del cristianesimo perseguitato quando interi villaggi si auto divoravano nelle fiamme, questi gesti si potevano chiamare “battesimi di fuoco”. E se il rogo di Quang Duc, e poi di cinque altri suoi fratelli e sorelle, nelle vie del Sud Vietnam all’alba di una guerra che avrebbe consumato e bruciato nel napalm persone, e bambini, che non avevano nessuna intenzione di martirizzarsi, parve il lampo atroce di una cultura lontana ed estrema, sarebbero passati appena nove anni perché quella stessa luce illuminasse anche l’Europa. Fu in una delle capitali più nobili e colte della storia europea, Praga, violentata dai panzer sovietici poco dopo il passaggio dei cingoli nazisti, che Jan Palach si diede fuoco, nell’inverno dopo la “Primavera” del 1968.

E’ da allora che il martirologio di questa “violenza senza violenza”, della disperazione più intensa e insieme più mite, come vuole il Buddismo e come vorrebbe il Cristianesimo quando non viene distorto dal falso apostolato con la spada, si è ampliato superando confini geografici e culturali. Si arse vivi il giovane tunisino Muhamed Buaziz, uomo alla fame privato anche del suo carretto di frutta e verdura dalla polizia del regime di ben Ali, lanciando la rivoluzione araba che avrebbe inghiotto l’Egitto, dove altri si sarebbero auto immolati, e la Libia.

Si uccise negli anni del Vietnam in un’aureola di fuoco anche un giovane americano pacifista per fede, il Quacchero Morman Morrison, davanti al Pentagono. Stringeva tra le braccia il figlio, bambino che voleva ardere con sé e gli venne strappato prima che le fiamme divorassero anche lui e sopravvisse al padre. In India si arsero vivi studenti per protestare contro le caste e la piazza Tienanmen, il luogo dove divenne immortale l’immagine dell’omino in camicia bianca solo davanti alla colonna di carri armati, scelsero la testimonianza finale, appunto il martirio, seguaci del Falun Gong, la setta che fa tremare, senza avere mai sparato un colpo o innescato una bomba, il regime comunista cinese.

Come le vedove indiane spinte al “sati”, all’autoimmolazione sulla pira funebre del marito, è lo stesso sentimento di vedovanza dal mondo, di estraneità terminale, solitudine irreversibile non per sé ma per la propria terra – come i Kurdi che si bruciarono per protestare contro i Turchi – o per la propria causa, per la propria storia o fede calpestate, come i monaci tibetani, a spingere questi uomini e queste donne al più atroce e simbolico dei sacrifici.

Proprio perché nulla, certamente non la deflagrazione dell’esplosivo che gli “shahid” del terrore producono vilmente per trascinare altri nella propria morte, o la morte istantanea nella collisione fra il “kamikaze” volante e il bersaglio, è tanto orribile e straziante da contemplare come l’autoimmolazione, questa forma di suicidio viene scelta. La psichiatria ufficiale, quando esamina casi come quello dei Quaccheri davanti al Pentagono, conclude invariabilmente che si tratta di individui “con forti disturbi psichici” e la diagnosi, nella sua ovvietà, non può spiegare la moltitudine di testimoni “battezzati nel fuoco” e rischia di mettere in discussione anche la mistica del calendario cristiano.

Più che la follia, è la totale assenza di ogni tornaconto o interesse personale, il sentimento della trascendenza del proprio gesto, quello che rende insieme inguardabili e irresistibili le sequenze dell’uomo che brucia, dei nuovi Giordano Bruno, delle “streghe” moderne che nessun tribunale condanna a quella fine. La speranza e l’illusione di Jampa Yeshi, come furono quella di Quang Duc nel 1963 o di Mohamed Buazizi nel 2011, è che l’atrocità delle immagini graffino le coscienze di marmo del potere, in quell’estrema manifestazione di vanità sacrificale, che li consuma, ma perché altri siano risparmiati.

Vittorio Zucconi

La Repubblica – 27 marzo 2012