di Dacia Maraini
Corriere della Sera – 2 giugno 2012
Quei giovani tibetani votati al sacrificio che Pechino reprime come «terroristi»
Rikyo aveva 33 anni e tre figli. Si è data fuoco davanti al monastero di Jonang Zamthang Gonchen
Una giovane donna tibetana, madre di tre figli, si è data fuoco per protestare contro la Cina colonizzatrice il 31 maggio scorso. Si chiamava Rikyo, aveva 33 anni. Lascia tre figli piccoli, un bambino di 9 anni e due bambine di 7 e 5 anni. Rikyo si è cosparsa di benzina e freddamente si è gettata addosso un fiammifero acceso davanti al monastero di Jonang Zamthang Gonchen, nella contea di Zamthang, nella regione di Ngaba. Anche i cinesi sono rimasti scossi perché Rikyo è la prima madre tibetana che si dà fuoco, dopo una lunga catena di suicidi dimostrativi maschili, trentotto in tutto. Gli ultimi, prima della donna, sono stati due fratelli, Dargye e Tabgye Tseten, due ragazzi dolcissimi, di cui ci rimangono solo alcune foto rubate coi telefonini. Ci si chiede: com’ è possibile che un Paese gigantesco, potente, ricco, sapiente di una antica sapienza, non capisca che questo accanirsi contro un piccolo popolo montanaro che chiede solo un poco di libertà è stupido oltre che vile?
Li chiamano «terroristi» questi giovani disperati che si tolgono la vita per protesta. Ma si tratta di una mistificazione linguistica. Terrorista è chi fa scoppiare bombe uccidendo innocenti, chi sequestra, rapina, spara per una idea politica. Ma chi non fa male che a se stesso, chi mette in gioco la sola cosa preziosa che ha: la propria vita, si può chiamare terrorista? Decine di tibetani vengono arrestati tutti i giorni perché fanno lo sciopero della fame, perché pregano quando non dovrebbero, perché chiedono di continuare a esistere come popolo. Il governo cinese non sente ragione e usa i modi più brutali. Li arresta in massa, li chiude nelle carceri, li picchia, li fucila con accuse di tradimento. Senza rendersi conto che questi metodi producono sopratutto rancore ed esasperazione fra i tibetani nonché sconcerto e disapprovazione fra i cinesi stessi. Se fossero terroristi, come urla il governo, metterebbero bombe, porterebbero avanti una guerra strisciante, clandestina, uccidendo e depredando. Invece questi tibetani che rifiutano le armi e vanno incontro all’occupante con i piedi scalzi, le mani nude, e la testa rapata, sono persone, che a rischio della vita, chiedono le libertà elementari: quella di potere parlare la propria lingua, di potere pregare nelle proprie chiese, di potere riverire il proprio capo religioso. Rileggo un libro scritto da mio padre, Fosco, nel ’39. Si chiama Dren Giong, un viaggio nel Tibet delle alte montagne. «Ora vado verso rocce che sono rocce, brune solide e non borragginose muraglie stillanti. Verso alberi che sono alberi, asciutti, segaligni e non grandi banani da serra; verso torrenti, freschi, leggeri e non fiumane giallastre impazzite giù per orride gole; verso monti scarni, ossuti e non verdi cupoloni impellicciati di foreste salgariane. Anche gli uomini sono più uomini qui. Ho incontrato una carovana di tibetani che scendevano dal nord e mi sono fermato a chiacchierare. Venite da Kampa-dzong? E dove andate? A Dorge-ling? Vogliono vedere «gli automobili», loro, e sentire le scatole che parlano. C’ è mercato a Dorge-ling e venderanno la lana compressa nelle balle portate dai muletti, poi compreranno tante cose utili e nuove. Sono allegri, loquaci e sopratutto comprensibili. Penso agli sguardi assenti dei Lepcia, vi paragono le mobili pupille dei tibetani e mi trovo meno solo». Ecco quello di cui dovrebbe essere fatta la vita di un popolo: amicizie, viaggi, progetti per il futuro, mercati, incontri, acquisti di cibi freschi, colloqui allegri con uno straniero che cammina in senso inverso. Una vita di famiglia e di lavoro che si svolge fra le montagne più alte del mondo, fatta di preghiere, scuola, lavoro nei campi, matrimoni, nascite e funerali. La vita di un paese libero, che nei giorni della normalità può apparire pure noiosa, ma che diventa un sogno meraviglioso quando le libertà sono diventate costrizione, quando il futuro appare immobile e freddo come un muro di cemento, quando ci si sente spogliati della propria cultura, della propria tradizione, della propria memoria storica. «La prigione di Tsel Gungthang è piena di tibetani presi nei rastrellamenti della polizia cinese che non risparmia nemmeno donne e anziani. Tutto è cominciato proprio domenica quando la polizia, per evitare le manifestazioni a Lhasa, ha arrestato circa 100 persone, sequestrando numerosi telefonini, macchine fotografiche e videocamere, per paura che le immagini della doppia immolazione fossero diffuse su internet. La città è tagliata fuori, non è possibile accedervi. La polizia respinge anche i pellegrini buddisti che arrivano dalle altre zone, oltre a bloccare le comunicazioni telefoniche cellulari e internet».
Notizie della Adnkronos. Sembra che la volontà di potenza e il bisogno di controllare e reprimere a tutti i costi diventi una ossessione per certi governi che finiscono per prendersela con gli stessi propri concittadini. Vedi il caso della Siria. E il caso della Cina che censura e castiga non solo i tibetani ma anche quei cinesi democratici che non approvano i metodi brutali e le repressioni indiscriminate della polizia di Stato. Più la protesta sale dal basso e più un governo autoritario si sente in dovere di condannare, chiudere, frenare, inibire, dominare. La storia in effetti insegna che i sistemi autoritari con pretesa totalitaria possono sopravvivere solo diventando sempre più intolleranti e occhiuti, contando sempre più sulla polizia, lo spionaggio e la delazione e sempre meno sul consenso. Ma c’ è un momento in cui la repressione diventa insopportabile e la popolazione che sembrava sopita in un sonno sottomesso, si sveglia e fa a pezzi il tiranno. Purtroppo i tiranni non leggono i libri di storia. Non sono disposti a imparare niente. E ritengono, come l’ orco della favola, che mangiando tutti gli esseri viventi che entrano nel proprio regno, lo salveranno. E non sanno che moriranno, nel modo più banale e stupido, di indigestione, per una rivolta esplosiva delle proprie viscere.
Maraini Dacia
(2 giugno 2012) – Corriere della Sera