21 gennaio 2013. Un tibetano di 28 anni, Drubchog, si è dato la morte con il fuoco il 16 gennaio a Drachen, un villaggio della regione di Khyungchu, prefettura di Ngaba. Con questa nuova immolazione, la seconda nel 2013, sale a novantasette il numero dei tibetani che hanno dato la propria vita la libertà del loro paese. Drubchok è’ deceduto sul luogo della protesta, un campo all’aperto di pallacanestro di fronte alla locale stazione di polizia. Lascia la moglie e due figlie in tenera età.
“Mio figlio è morto per la giustizia e per la libertà del popolo tibetano”, ha dichiarato il padre del nuovo martire tibetano a chi si è recato a fargli visita. Prima di darsi fuoco, Drubchok ha pronunciato il nome del Dalai Lama e ha congiunto le mani in preghiera. La foto pervenuta lo mostra seduto a terra con il busto avvolto dalle fiamme.
Le forze di sicurezza hanno recuperato i suoi resti e hanno proceduto alla cremazione senza avvisare la famiglia. Drachen è ora presidiata dalla polizia e, secondo quanto riportano fonti tibetane, la situazione in tutta la regione è “estremamente tesa”.
Il 15 gennaio 2013, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha dato notizia dell’arresto di sette tibetani accusati di aver organizzato l’autoimmolazione di Sangay Gyatso, il ventiduenne tibetano immolatosi il 6 ottobre 2012. Riferisce Xinhua che, dopo la morte del giovane, l’Ufficio di Pubblica Sicurezza ha immediatamente costituito una speciale “task force” il cui lavoro ha consentito la cattura di un gruppo di tibetani “membri della cricca del Dalai Lama e del Tibetan Youth Congress”. Afferma l’agenzia che lo scorso autunno le forze di sicurezza hanno arrestato sette tibetani al loro ritorno dall’India, dove avevano assistito agli insegnamenti di Kalachakra impartiti dal Dalai Lama, per aver organizzato “il premeditato incitamento all’autoimmolazione con la conseguente morte di una persona”. Come i lettori ricorderanno, le persone arrestate al ritorno in Tibet dopo gli insegnamenti del Dalai Lama furono centinaia. A lungo non si ebbero loro notizie, molti furono allontanati dai rispettivi luoghi di residenza e forzatamente fatti partire per ignota destinazione.
Tsewang Rigzin, Presidente del Tibetan Youth Congress, ha dichiarato che il movimento in esilio non incoraggia le autoimmolazioni e che le accuse mosse dalle autorità cinesi servono solo a coprire le responsabilità di Pechino e sono soltanto un misero tentativo di diffamare il movimento.
Fonti: Phayul – International Campaign for Tibet