Lhakar Karpo”, letteralmente “il Mercoledì Bianco”, è il nome del movimento della resistenza popolare tibetana contro l’occupazione cinese e il conseguente rischio di una totale sinizzazione del paese. Iniziato alla fine del 2008, Lhakar è espressione della volontà del popolo del Tibet di coinvolgere tutta la società, con modalità diverse, in un nuovo tipo di lotta non-violenta. L’articolo, scritto da Tenzin Dorjee, direttore esecutivo di Students for a Free Tibet, è stato pubblicato il 10 gennaio 2013 sulla Tibetan Political Review.
Mentre in questi giorni l’ondata delle auto-immolazioni ha comprensibilmente dominato ogni dissertazione sul Tibet, una forma di resistenza meno tragica sta trasformando il panorama dell’attivismo tibetano. Questa nuova forza è il movimento popolare pan-tibetano conosciuto come Lhakar.
Le prime manifestazioni di Lhakar – il nome viene tradotto di solito come “Mercoledì Bianco” e occasionalmente come “Pura Dedizione” – risalgono al 2008, all’indomani dell’insurrezione nazionale contro il dominio cinese. Quattro anni dopo la sua nascita, Lhakar ha prodotto nei tibetani un totale cambiamento nel modo di intendere l’attivismo grazie all’enfasi posta su tre elementi chiave: la de-collettivizzazione dell’attivismo, la cultura come arma e la non-cooperazione.
1. La de-collettivizzazione dell’attivismo
Il punto di forza di Lhakar sta nella sua semplicità. Si fonda sugli elementi alla base della libertà, quali sono le decisioni più banali che le persone prendono nella vita quotidiana – per esempio, quando recarsi al tempio, che tipo di musica ascoltare, in quale ristorante mangiare, in quale negozio acquistare i generi alimentari, quale lingua parlare a casa – piuttosto che su decisioni più radicali che comportano il pagamento di un alto prezzo.
Negli anni 80′ del secolo scorso, era prassi comune per i tibetani recarsi ogni settimana al tempio del Jokhang per accendere lampade a burro, bruciare incenso e pregare in segreto per la lunga vita del Dalai Lama. Questi rituali, in gran parte religiosi e simbolici, avevano luogo il mercoledì, un giorno considerato di buon auspicio per il Dalai Lama. Ma la repressione indiscriminata operata dalla Cina nel 2008, ha radicalizzato l’intera nazione e politicizzato una nuova generazione di tibetani. In Tibet, la repressione ha toccato quasi tutte le famiglie; anche quelli che erano rimasti in casa ad aspettare che la rivolta finisse erano a un solo grado di separazione da chi era stato imprigionato, era scomparso o era stato ucciso.
Mentre la Cina soffocava ogni espressione collettiva di dissenso, i tibetani rispondevano de-collettivizzando il loro attivismo. Attraverso azioni personali, come ad esempio indossare abiti tradizionali, mangiare cibo tibetano, ascoltare la radio indipendente, insegnare, tra le pareti domestiche, la madre lingua, molti tibetani hanno cominciato ad usare il loro spazio individuale per affermare un’identità soppressa da decenni.
In un momento politicamente di grande importanza, rituali di abituale valenza culturale hanno acquisito improvvisamente un significato politico, non tanto perché conferivano alle persone un’identità tibetana ma perché davano loro un’identità non-cinese. In un gioco a somma-zero della politica di identità nazionale, essere tibetano è diventato sinonimo di “non essere cinese.” Questo fenomeno ha dato vita a una serie di azioni concrete che vanno al di là del puro simbolismo, e, nel tempo, al di là degli stessi “Mercoledì Bianchi”.
Privilegiando singoli atti di resistenza piuttosto che atti pubblici di protesta, Lhakar ha decentralizzato la resistenza. Usando le loro case, i luoghi di lavoro e i computer come campi di battaglia della resistenza, i tibetani trasformano le loro limitate scelte personali e le attività quotidiane in un cuneo su cui fare leva per acquisire maggiore libertà sociale, politica ed economica. Un praticante Lhakar non si aspetta che la libertà venga da qualche piccolo cambiamento della politica o del cuore di Pechino, ma dai pensieri quotidiani degli uomini e delle donne, poiché ogni decisione e ogni azione favoriranno il crescere di un mondo parallelo di libertà che avrà la meglio sulla sovrastruttura repressiva della Cina.
Pertanto, attraverso la de-collettivizzazione dell’attivismo, Lhakar sostiene la resistenza conferendo potere all’individuo. Così facendo, Lhakar apre la strada all’attivismo in generale.
2. La cultura come arma
Cresciuti in esilio, la prima cosa che abbiamo imparato a conoscere sulla nostra cultura è che era a rischio di estinzione in patria e di assimilazione in esilio. Si credeva che la cultura potesse sopravvivere solo per concessione della politica, ma la politica attuata in Tibet lascia alla cultura tibetana poche speranze di sopravvivenza. I tibetani della mia generazione hanno avuto la sensazione la loro cultura fosse come un fragile fiore: bello da vedere, ma incapace di difendersi.
Tuttavia, Lhakar sta invertendo questa percezione della cultura. Da quando è nato il movimento, un numero crescente di tibetani ha iniziato a considerare la cultura come uno strumento di lotta per la conquista di maggiori diritti politici. Stanno usando l’arte, la letteratura, la poesia e la musica tibetana come veicoli per esprimere la loro fede nel Dalai Lama, l’amore per la loro patria e il desiderio di libertà. Canzoni con testi di contenuto politico o video musicali con immagini del Dalai Lama sono diventati “instant hits”, vendendo decine di migliaia di copie. La crescita, da parte del pubblico, della richiesta di musica e poesia tibetana dato l’avvio, in tutto l’altipiano, a una moderna rinascita dell’arte e della letteratura. Per la prima volta da decenni, forse da secoli, i tibetani anziché aspettare che la politica salvi la cultura stanno riscoprendo che la cultura può salvare la politica.
Questa trasformazione si avverte vivamente nell’entusiasmo con cui la gente riprende lo studio della lingua tibetana. In varie parti del Tibet, anziani e bambini si impegnano a parlare il tibetano puro, eliminando tutti i termini cinesi dal loro vocabolario. A Sertha, nel Kham (cinese: Sichuan), gli anziani passano ai giovani, spontaneamente, i dizionari tibetani. Nel Tibet orientale, scrittori e musicisti che una volta preferivano esprimersi nella lingua dominante cinese ora scrivono e compongono in tibetano. Nei ristoranti e nei caffè, i proprietari servono i clienti solo quando ricevono l’ordinazione in tibetano. Ogni mercoledì, gli utenti di Weibo “tweettano” in tibetano, gli utenti di Renren e di Facebook postano regolarmente immagini e poesie contenenti messaggi politici.
Questi pochi esempi mostrano come le attività di Lhakar si stiano moltiplicando in tutto il Tibet, da Lithang a Lhasa, da Ngaba a Rebkong, da Sertha a Nangchen. Nell’arte, nella poesia e nella letteratura, i tibetani sono in grado di dipingere una zona grigia inesistente nelle tele in bianco e nero della politica.
A una generazione cresciuta nella convinzione non avrebbe mai potuto competere con il potere della Cina, niente dà più forza del comprendere che l’inesauribile serbatoio della nostra cultura viene finalmente utilizzato come un’arma, come un potente insieme di strumenti non violenti. Lhakar ha trasformato la cultura tibetana da un bene congelato a un capitale liquido, da uno scettro sacro in una lancia d’oro.
3. La non-cooperazione
Più di un millennio è passato da quando il Buddismo ha reso il Tibet più pacifico, ma i nostri istinti guerrieri sono ancora forti. Ci buttiamo nella battaglia prima di valutarne l’utilità e analizzarne i rischi. In quasi ogni leggenda tibetana, il coraggio e l’azione prevalgono sulla preparazione e la pianificazione. Nell’immaginario tibetano la strategia occupa un posto trascurabile.
Per decenni, la tattica predominante della resistenza tibetana è consistita nelle proteste di piazza. In esilio è una tattica efficace e a basso rischio, ma in Tibet il costo delle proteste di piazza è insostenibilmente alto. Il più semplice atto di protesta comporta la possibilità di essere uccisi a colpi d’arma da fuoco e la certezza di essere incarcerati. Tuttavia, poiché Lhakar ha posto l’accento sulla strategia, i tibetani hanno imparato ad apprezzare il potere della non-cooperazione, una tattica audace e allo stesso tempo meno rischiosa: è meno costosa in termini di vite umane e, spesso, più efficace delle azioni di protesta.
Dal 2008 molti tibetani hanno iniziato a mangiare solo nei ristoranti tibetani e a comperare solo nei negozi tibetani costringendo le imprese cinesi a chiudere in diverse città. Questo “boicottaggio non dichiarato” delle imprese di proprietà cinese è una risposta per le rime alla “legge marziale non dichiarata” posta in atto dalla Cina in Tibet e richiama i principi di Gandhiani della non-cooperazione economica.
Per molti anni, a Nanchen (cinese: Nangqen) i tibetani hanno acquistato la verdura a prezzi astronomici nei negozi alimentari cinesi il cui monopolio sul mercato ortofrutticolo era incontrastato. Ma, all’inizio del 2011, un gruppo di tibetani ha iniziato a boicottare i negozi di verdura cinesi. Il loro potere in quanto consumatori è cresciuto nel momento in cui altri tibetani hanno seguito il loro esempio. Dopo appena due mesi, molti negozi di generi alimentari cinesi sono stati costretti a chiudere per mancanza di lavoro e sono stati sostituiti da nuovi ortolani tibetani.
Per la prima volta nella storia recente, i tibetani si rendono conto di come le loro azioni individuali possono cambiare il futuro collettivo. Il discorso sulla resistenza sta cambiando: anziché porre l’accento sul vittimismo, enfatizza l’azione, la creatività e la strategia. Fino a poco tempo fa, la maggior parte delle conversazioni iniziava e finiva con la constatazione dell’impotenza tibetana di fronte alla spietatezza cinese. Oggi, nelle sale da tè, si discute animatamente di resistenza, strategia e azione.
Rassicurati dai risultati tangibili della non-cooperazione, i tibetani non considerano più la non-violenza un principio religioso che pone dei limiti all’azione: la considerano piuttosto un’arma strategica che libera il loro potenziale. Come dimostrato più e più volte in altre rivoluzioni, nulla può più efficacemente abbattere i pilastri di una dittatura che una diffusa e condivisa campagna di non-cooperazione.
Il futuro di Lhakar
Lo scorso autunno, a Sershul, nel Tibet orientale, le autorità cinesi hanno arrestato una donna tibetana perche il mercoledì indossava la Chupa. Circa nello stesso periodo, hanno arrestato centinaia di tibetani accusati di fare parte di un gruppo che si batteva per la preservazione della lingua tibetana e molti altri che promuovevano il vegetarianesimo: i tibetani più anziani amano, infatti, credere che il buon karma accumulato con la riduzione del consumo di carne sia di auspicio per la lunga vita del Dalai Lama.
Il governo cinese potrebbe aver trovato un nuovo nemico in Lhakar. Ma nel dichiarare Lhakar suo nemico, la Cina ha preso di mira un concetto, un sostantivo astratto, privo di armi di distruzione. L’essenza di Lhakar non è nella chupa che una persona indossa ma nell’intenzione con cui la si indossa. Il vero Lhakar è un movimento della mente e quindi invisibile e non raggiungibile da contingenti militari, carri armati o proiettili. Il pesante giro di vite dei cinesi contro le persone che parlano tibetano, che indossano certi abiti o che diventano vegetariani – espressione della calante fiducia in loro stessi a fronte di una crescente insicurezza – si ritorcerà contro il regime e, nel lungo periodo, finirà per rafforzare Lhakar.
Ironia della sorte, la peggiore minaccia per Lhakar potrebbe venire dal suo stesso interno, dal fraintendimento del concetto di non-violenza strategica. Non dobbiamo pensare che il solo fatto di indossare una chupa o di parlare un tibetano puro sia sufficiente a soddisfare la nostra quota parte di adesione all’attivismo Lhakar o che, invece, il fatto di non indossare una chupa o di parlare un’altra lingua violi in qualche modo i principi del movimento. Una definizione ristretta potrebbe prematuramente strangolare Lhakar; una definizione aperta e inclusiva permetterà a Lhakar di crescere e maturare. Se l’adesione al movimento si esplicherà in mille modi diversi, come farà il governo cinese a sfidarli tutti?
Coloro che hanno passione per la scrittura potrebbero dedicare ogni settimana almeno un’ora ad un lavoro di editing delle voci di Wikipedia correlate al Tibet per verificare che siano veritiere; coloro che hanno piani tariffari illimitati potrebbero, il mercoledì, passare una “happy hour” a telefonare ai consolati e alle ambasciate cinesi mettendoli alle strette circa il trattamento riservato dal loro governo ai tibetani (il modo migliore per liberarsi dallo stress consiste nel trasferirlo su qualcun altro); chi sta imparando il tibetano potrebbe leggere le notizie in tibetano, almeno una volta alla settimana; chi è cresciuto in occidente potrebbe sintonizzarsi, ogni mercoledì, sui servizi in lingua tibetana di Radio Free Asia, di Voice of America o di Voice of Tibet; gli amanti dello shopping potrebbero dedicare un paio d’ore ogni mercoledì a convincere i negozianti e i rivenditori a sostituire i prodotti “Made-in-Cina” con prodotti con “Made-in…”[inserendo il proprio paese di residenza]; gli studenti potrebbero, ogni mercoledì, ricoprire i loro campus di volantini di denuncia delle ingiustizie in atto in Tibet e di come correggerle. Queste sono solo alcune tra le decine di azioni che le persone potrebbero compiere in sintonia con le proprie capacità, abilità e interessi.
I movimenti sociali sono alimentati da risultati positivi e annientati da gestioni autoreferenziali. Il fascino di Lhakar sta proprio nel suo essere un movimento volontario, flessibile e adatto a tutti. Dobbiamo consentire a ogni persona di contribuire al movimento liberamente e secondo le sue preferenze, non costringerla a conformarsi a determinate regole e apparenze. Lhakar ha bisogno di “cheerleaders”, non di poliziotti.
In America, all’epoca del Movimento per i Diritti Civili, molti professionisti e ricchi uomini d’affari di colore chiedevano a Martin Luther King Jr. di rallentare il suo impegno nella campagna per l’uguaglianza. “Non agitare le acque”, lo imploravano “Se spingi troppo, potremmo perdere anche quel poco che abbiamo guadagnato.”(Fortunatamente per tutti noi, il Movimento per i Diritti Civili ha continuato ad agitare le acque). Anche nel nostro caso, alcune persone tentano di salvare dagli artigli della Cina una versione più moderata di Lhakar attraverso la promozione di un movimento meno impegnato. Cercano di portare avanti una versione mite e sdentata di Lhakar insistendo sul fatto che debba rimanere un movimento culturale, non politico.
Ma tali argomenti hanno le loro radici in una psicologia disfattista che ci rende incapaci di immaginare il potere tibetano al di fuori dei parametri cinesi. Delinea un attivismo portato avanti nella paura, e la paura è la prigione più efficace che gli oppressori abbiano mai costruito per gli oppressi. Quale altro carcere o centro di detenzione ci può imprigionare anche in esilio?
Ora è il momento di rafforzare Lhakar, amplificando la sua filosofia e intensificando la sua pratica non al ritmo dettato dalla Cina, ma a quello scelto dai tibetani. Questo non è il momento di dividere i tibetani in attivisti contro pacifisti, in dediti alla politica contro dediti alla cultura, in laici contro religiosi. Dobbiamo attenuare i confini tra la cultura e la politica, tra il sociale e lo sviluppo economico poiché tale divisione in compartimenti stagni non esiste nella vita reale: viviamo contemporaneamente in ognuna di queste sfere.
Non è lontano il giorno in cui il governo cinese vedrà in ogni tibetano un attivista e considererà sovversiva ogni sua azione. Quando ciò avverrà sapremo che la Cina ha perso la battaglia per Tibet.
Tenzin Dorjee è direttore esecutivo di Students for a Free Tibet e blogger al sito: www.lhakar.org
Traduzione dall’inglese a cura dell’Associazione Italia-Tibet