26 giugno 2013 (AsiaNews). Gli scontri fra uighuri e cinesi di etnia han nella provincia occidentale dello Xinjiang hanno provocato questa notte 27 vittime, quasi tutti manifestanti uccisi dalla polizia che ha aperto il fuoco contro di loro. Le violenze sono avvenute nella zona desertica nei pressi di Turpan, a circa 280 chilometri dalla capitale provinciale Urumqi. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, gli agenti hanno aperto il fuoco contro “una massa di briganti violenti”.
Prima che le forze di polizia aprissero il fuoco erano morte già 17 persone (9 poliziotti e 8 civili). La folla aveva preso d’assalto una stazione di polizia e un edificio governativo. Per difendere questi immobili, dichiara un funzionario locale anonimo, gli agenti “hanno aperto il fuoco contro la folla” uccidendo 10 civili. Diverse decine le vittime in entrambi i campi, che ora sono ricoverati presso l’ospedale locale.
Non è chiara la motivazione alla base degli scontri. La provincia è da molto tempo epicentro di violenze e tensioni fra l’etnia uigura – un tempo maggioritaria nella zona – e l’etnia han. Il governo centrale di Pechino ha favorito l’emigrazione di han nella provincia proprio per cercare di “livellare” la realtà sociale del Xinjiang, ma i continui scontri dimostrano che l’esperimento è fallito.
Gli uiguri sono musulmani e turcofoni: da diversi decenni hanno un rapporto conflittuale con il governo centrale cinese. Dopo alcuni tentativi (falliti) di ottenere l’indipendenza come “Turkestan orientale”, i leader etnici hanno chiesto a Pechino la possibilità di preservare lingua, cultura e religione locale. Il governo cinese – pur concedendo agevolazioni fiscali e sociali – ha deciso invece di usare la mano pesante e ha lanciato una campagna di controllo e repressione in tutta la zona. La mano pesante del regime si fa sentire anche sulle comunità religiose islamiche, sospettate di educare a un islam integralista e terrorista. Vi è controllo e censura su pubblicazioni islamiche, controllo sulle prediche degli imam, ai giovani prima dei 18 anni è proibito andare in moschea.
Padma Choling, ex presidente della cosiddetta Regione Autonoma Tibetana e dal gennaio 2013 rappresentante della TAR all’interno del Congresso Nazionale del Popolo, ha dichiarato che i tibetani residenti all’estero e desiderosi di tornare in Tibet saranno benvenuti e che “per loro le porte saranno sempre aperte”. Choling, alla testa di una delegazione del Congresso Nazionale del Popolo, si è così espresso il 22 giugno, a NewYork, nel corso di un symposium tenuto presso il consolato cinese.
Choling ha sottolineato i “considerevoli progressi nei settori dell’economia, dello standard di vita delle persone e dell’armonia religiosa” che il Tibet ha conosciuto negli ultimi sessant’anni. Nel ribadire che i tibetani residenti oltre oceano e desiderosi di tornare “a casa” e di stabilirvisi sono sempre benvenuti, Choling ha dichiarato che “molti anziani hanno già fatto ritorno”. Prima di lui, all’inizio del mese di giugno, Chen Quanguo, segretario del Partito nella Regione Autonoma, aveva affermato che coloro faranno ritorno in Tibet dovranno adoperarsi al massimo per “rafforzare il sentimento di patriottismo dei compatrioti d’oltre mare” e che, assieme, dovranno contribuire a rendere il paese stabile nel tempo.
Fonti: AsoaNews – Phayul