di Ilaria Maria Sala
La Stampa – 27 giugno 2013
Hong Kong
Più di due milioni di tibetani spostati contro la loro volontà verso nuove case di cemento. Centinaia di migliaia di nomadi tolti dalle praterie, e persuasi a vivere in casette a schiera lungo nuove strade asfaltate, dove abitano anche quadri di Partito, preposti a controllare che non nascano nuove insurrezioni anti-cinesi.
Questa la situazione, dettagliata con dovizia di particolari da Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi dal titolo «They say we should be grateful» («Dicono che dovremmo essere grati»), in cui è illustrato il modo capillare in cui l’intervento statale sull’altipiano tibetano sta modificando per sempre uno stile di vita secolare, senza che i diretti interessati abbiano modo di mettere parola sulla direzione che prende il loro presente e il loro futuro.
Dal 2006, dice Nicholas Bequelin di Human Rights Watch, «il governo cinese sta portando avanti una campagna chiamata di “costruzione dei nuovi villaggi socialisti” che prevede lo spostamento forzoso di centinaia di migliaia di tibetani, in villaggi costruiti secondo standard governativi dai quali non è previsto sgarro. I villaggi tibetani, abitati da secoli, sono stati distrutti e rasi al suolo, costringendo la popolazione a spostarsi poche centinaia di metri più in là nelle case di nuova costruzione». Non tutti i tibetani sono necessariamente contrari alla modernizzazione del loro stile di vita, precisa Bequelin: «Come tutti, trovano vantaggioso avere acqua corrente ed elettricità in casa, ma quello che è intollerabile è che ciò debba essere loro accessibile solo al costo del loro stile di vita e della loro cultura».
Le nuove case – simili a quelle che vengono costruite ai quattro angoli della Cina – sono «localizzate» solo da tetti dipinti alla tibetana, con strisce amaranto e qualche cerchio bianco lungo il cornicione, sono costruite secondo una versione standardizzata che non fa nessuno sconto alle condizioni climatiche locali, spesso estreme. Così, alle case dai muri spessi che mantenevano i locali freschi in estate e caldi in inverno, sono ora sostituiti muri sottili tutti uguali. «Il governo cinese ignora del tutto quell’autonomia che promise sulla carta ai tibetani», dice Bequelin, enfatizzando il punto più tragico della situazione: «La totale impotenza tibetana davanti a un cambiamento sul quale non hanno alcun potere, per quanto il governo cinese continui a sostenere che le re-localizzazioni siano volontarie».
Il governo cinese ha infatti deciso di procedere a un’eliminazione quasi totale del nomadismo in Cina di qui al 2015. Ed entro il 2014, altre 900 mila persone saranno sradicate dai loro villaggi e spostate nei «Nuovi villaggi socialisti», mentre nella regione del Qinghai, parte dell’altipiano tibetano, entro la fine dell’anno il totale di tibetani sedentarizzati arriverà a 413.000, secondo quanto stabilito dal rapporto di Hrw.
«In un contesto già altamente repressivo, i tibetani non hanno modo di esprimere alcuna opposizione al progetto che ha portato a un impoverimento significativo delle popolazioni coinvolte: per quanto il governo cinese dica che le nuove case sono statali, abbiamo verificato che la maggior parte dei costi di costruzione sono imposti ai tibetani stessi, che non avevano mai chiesto di cambiare casa o di veder distrutta quella nella quale abitavano. Ora devono ora pagare le nuove abitazioni fino al 75%», commenta Bequelin.
E davanti al crescente inasprirsi delle relazioni fra tibetani e cinesi dal 2008 – quando ci fu una sanguinosa insurrezione anti-cinese a Lhasa e in alcune altre regioni tibetane – ecco che è stato deciso di inviare in ognuno dei 5400 villaggi tibetani delle squadre di funzionari di Partito che dovranno «vivere, lavorare e mangiare insieme» agli abitanti locali, applicando politiche che, secondo Hrw, «stabiliscono un sistema di sorveglianza politica costante e violano i diritti civili, culturali, politici e religiosi dei tibetani».
Una politica che non sembra essere stata in grado finora di portare a maggiore serenità il Tibet: dallo scorso anno, infatti, è salito a 119 il numero di tibetani che si sono dati alle fiamme, nel tentativo disperato di attirare l’attenzione del mondo sulle loro condizioni di vita sotto un sistema politico che preclude ogni forma di dialogo.
LaStampa.it
26 giugno 2013