Ginevra, 22 ottobre 2013. Tredici stati membri del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite hanno espresso critiche nei confronti della Cina, con esplicito riferimento alla situazione all’interno del Tibet, nel corso della Universal Periodic Review (UPR), una procedura condotta da un gruppo di lavoro composto dai 47 stati membri del Consiglio per i Diritti Umani (UNHRC), che ogni quattro anni esamina l’aderenza di tutti i 193 stati membri delle Nazioni Unite agli impegni assunti in questo campo. In data odierna la UPR era chiamata a valutare la posizione della Cina.
I rappresentanti di Canada, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Giappone, Nuova Zelanda, Polonia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti si sono espressi verbalmente citando nei loro interventi il Tibet e la violazione dei diritti umani all’interno del paese. Svezia, Norvegia e Danimarca hanno presentato istanze scritte in cui si chiede alla Cina di cambiare la propria politica nei confronti delle minoranze etniche e di rispettare il diritto alla libertà di espressione, religione e assemblea. Numerosi altri stati hanno espresso posizioni critiche senza citare espressamente il caso del Tibet. Il Consiglio di Sicurezza per i Diritti Umani voterà il prossimo 12 novembre e la Cina continuerà a farne parte se otterrà il voto favorevole di 97 stati membri delle Nazioni Unite.
La delegazione cinese, dopo aver definito “aperto, sincero e collaborativo” il dialogo con gli altri paesi presenti a Ginevra, ha presentato un lungo documento che difende la politica di Pechino in Tibet. “Oggi – si legge – il Tibet si sta sviluppando economicamente, sta facendo progressi politici, ha una cultura fiorente, una società armoniosa e un ambiente buono, il popolo è felice e gode di buona salute”. Wu Hailong, inviato speciale del Ministero degli Esteri cinese, ha fatto sapere che tutte le precedenti raccomandazioni delle Nazioni Unite sono state implementate o sono in via di implementazione e che, in linea di massima, tutti gli impegni assunti dalla Cina sono stati onorati. Tra le raccomandazioni rivolte alla Cina nel 2009 figuravano la riduzione della povertà e il riconoscimento dei diritti delle minoranze. Alcuni attivisti tibetani, membri dell’organizzazione Students for a Free Tibet e dell’Associazione della Gioventù Tibetana in Europa sono riusciti ad entrare nel Palazzo delle Nazioni e a srotolare all’esterno della sala in cui si svolgeva la riunione un grande striscione (nella foto) con la scritta “Cina, diritti umani: l’ONU deve mobilitarsi per il Tibet”.
Lo stesso giorno, in un libro bianco intitolato “Sviluppo e progresso in Tibet”, articolato in sei punti e pubblicato dall’Agenzia Xinhua, Pechino ha esaltato i cambiamenti avvenuti nella cosiddetta Regione Autonoma nell’arco degli ultimi sessant’anni in campo economico, politico e culturale grazie alla “pacifica liberazione” e alle “riforme democratiche introdotte dalla Cina”. Il libro bianco definisce il Tibet prima degli anni ’50 “una regione buia e arretrata come l’Europa medioevale”, con una società feudale governata da un regime teocratico in cui si mescolavano il potere politico e quello religioso. Le riforme seguite alla liberazione del paese avrebbero consentito al popolo tibetano di ottenere libertà, uguaglianza e dignità e di godere pienamente dei frutti della civiltà moderna.
Il 20 ottobre, Zhu Weiqun, presidente del Comitato per gli Affari Etnici e Religiosi, aveva definito l’idea di autonomia chiesta dal Dalai Lama il primo passo verso l’indipendenza. “Un alto grado di autonomia significa sostanzialmente l’indipendenza del Tibet, non possiamo permettere che questo avvenga in Cina” – ha dichiarato Zhu – “Il Dalai Lama chiede prima l’autonomia per poi andare oltre e fare del Tibet un paese indipendente”.
Fonti: TIN – Times of India – Xinhua – BBC World Service