TESTIMONIANZA DI DICKI CHHOYANG DELL’AMMINISTRAZIONE CENTRALE TIBETANA DAVANTI ALLA COMMISSIONE STRAORDINARIA DEL SENATO ITALIANO PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI – 5 DICEMBRE 2013

Presidente Luigi Manconi, membri della Commissione, a nome del popolo tibetano vi ringrazio per l’opportunità di questa testimonianza davanti alla Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani. E’ la prima volta che in Italia si tiene un’udienza sulla situazione dei diritti umani dei tibetani e ve ne sono grata.

Il legame del Tibet con l’Italia risale al 1716, quando il gesuita toscano Ippolito Desideri giunse a Lhasa, la capitale del Tibet. Fu il primo europeo a studiare in modo compiuto la lingua e la cultura tibetana. Questo legame continua ai nostri giorni che vedono l’Italia offrire una seconda casa si tibetani che hanno chiesto rifugio politico. Inoltre, molte città italiane, inclusa la grande città di Roma, hanno reso onore al Dalai Lama con il conferimento della cittadinanza italiana.

Ad espressione del suo sostegno, l’8 febbraio 2009 la Camera dei Deputati italiana adottò all’unanimità una risoluzione in cui si chiedeva alla Repubblica Popolare Cinese di impegnarsi nel dialogo con gli Inviati del Dalai Lama per trovare una soluzione al problema tibetano. Si chiedeva inoltre alla Cina l’immediata cessazione della repressione in Tibet e al Governo italiano di farsi promotore presso le Nazioni Unite di un’iniziativa di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani in Tibet. Similmente, l’8 febbraio 2012 la Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Deputati ha approvato una risoluzione in cui vengono ribadite al Governo italiano le sopra citate raccomandazioni. Vi ringraziamo per questi gesti di solidarietà.

Oggi sono qui per riferirvi della situazione in Tibet, della lotta quotidiana dei tibetani nel tentativo di conservare la loro dignità sotto il pugno di ferro della repressione e degli sforzi ininterrotti compiuti da quanti di noi vivono liberi per preservare, nell’esilio, la cultura tibetana fino a quando potremo tornare a casa. Sono orgogliosa di dire che lo spirito dei tibetani è forte. Grazie alla guida lungimirante di Sua Santità il Dalai Lama, la nostra causa e le nostre speranze sono vive. Il regime che Pechino ci impone è duro ma il popolo tibetano lo è ancora di più.

Come sapete, nel 2011 Sua Santità il Dalai Lama prese una decisione storica e devolvette le sue responsabilità politiche ai leader eletti dell’Amministrazione Centrale Tibetana. Questa decisione fu il passo finale e decisivo nella realizzazione della sua visione di un sistema di governo democratico per il popolo tibetano. Questo cambiamento invia inoltre a Pechino un inequivocabile messaggio: la leadership del movimento per la libertà del Tibet è stato affidato a una generazione più giovane. La Cina ritiene infatti che la lotta per la causa tibetana scomparirà con la morte del Dalai Lama. Questo non accadrà. Siamo determinati a trovare una risoluzione pacifica alla questione del Tibet attraverso la politica dell’Approccio della Via di Mezzo che propone una genuina autonomia all’interno della costituzione cinese.

Nel 1950, quando l’Esercito di Liberazione occupò il Tibet, i cinesi promisero ai tibetani il “paradiso socialista”. Dopo oltre sessant’anni di cattivo governo, in Tibet non vi è socialismo ma solo colonialismo, non vi è un paradiso ma soltanto tragedia. Le notizie che giungono dalla nostra patria raccontano storie di distruzione – compresi la nostra lingua e il nostro ambiente – di sparizioni, di discriminazioni, di detenzioni e arresti, di torture e condanne a morte senza processi. Oggi, in Tibet, ammonta a 1.204 persone il numero dei prigionieri politici accertati. Solo quest’anno sono stati incarcerati più di 254 tibetani e dal 2008 sono state sentenziate 22 condanne all’ergastolo.

Nel Tibet occupato non conoscono sosta la repressione politica, l’assimilazione culturale, la marginalizzazione economica e la distruzione ambientale. La nuova linea ferroviaria che collega Pechino a Lhasa esporta le nostre risorse naturali e importa un numero sempre maggiore di migranti cinesi. Oggi, circa il 70%delle aziende del settore privato sono possedute o gestite dai cinesi e più del 50% dei funzionari governativi sono cinesi. Circa il 40% dei tibetani con un titolo di studio universitario o con un diploma di scuola superiore sono disoccupati.

Un esempio di questa situazione è fornito dalla fotografia, pervenutaci clandestinamente, di un cartello di ricerca di personale esposto nella vetrina di un negozio di Lhasa un paio d’anni fa. Venivano offerti 30 remibi per l’assunzione di un tibetano e 50 per l’assunzione di un cinese: un caso lampante di discriminazione economica. I tibetani sono stati ridotti a cittadini di seconda classe nella loro stessa terra.

Educazione. In campo scolastico ci preoccupa fortemente la sostituzione del tibetano con il mandarino come mezzo linguistico usato per l’istruzione. La lingua è uno dei più importanti segni dell’identità di un popolo e il tibetano è il principale strumento di comunicazione, la lingua in cui sono scritti i nostri testi letterari, spirituali, storici e scientifici. L’applicazione di questa nuova politica scolastica è sfociata in una serie di imponenti manifestazioni di protesta da parte degli studenti tibetani che chiedevano al governo cinese di mettere in pratica il motto “uguaglianza delle etnie” attraverso il riconoscimento dell’uguaglianza delle lingue.

Libertà di religione. Per i tibetani il Buddismo è uno stile di vita ed è strettamente legato alla loro identità. La soppressione della libertà di professione e pratica della religione assume aspetti diversi e comprende la gestione dei monasteri da parte del Partito Comunista Cinese attraverso i cosiddetti “comitati manageriali”. Le sessioni di “ri-educazione patriottica”, nel corso delle quali i monaci o le monache sono costretti a denunciare Sua Santità il Dalai Lama e a promettere fedeltà al Partito, sono diventate routine e sono una delle cause principali dell’ondata di auto-immolazioni.

L’ambiente e l’insediamento dei nomadi. Il Tibet è situato tra due dei più grandi paesi del mondo e al crocevia tra la Cina e l’Asia centrale e meridionale. L’altopiano tibetano, a parte i due poli, possiede alcune tra le maggiori riserve d’acqua sorgiva. Ospita le sorgenti di molti importanti fiumi asiatici, compresi il Brahmaputra, l’Indo, il Sutlej, il Salween, il Mekong, lo Yangtse e il Fiume Giallo che scorrono verso la Cina, l’India, il Pakistan, il Nepal, il Bhutan, il Bangladesh, la Birmania, la Tailandia, il Vietnam, il Laos e la Cambogia. Questa rete fluviale, assieme ai suoi tributari, garantisce la vita di milioni di persone nel continente asiatico.

Per millenni il popolo tibetano ha svolto il ruolo di guardiano dell’altopiano, dei suoi fiumi e del suo ambiente. Ma le politiche cinesi stanno mettendo a repentaglio il territorio: i cinesi stanno forzatamente allontanando dai pascoli i nomadi tibetani, tradizionali custodi della terra, e contemporaneamente incrementano lo sfruttamento delle risorse minerarie e la deforestazione. Nella sua relazione datata 20 gennaio 2011, Olivier de Schutter, Special Rapporteur delle Nazioni Unite sul Diritto al Cibo, afferma che, secondo fonti cinesi, nella Regione Autonoma Tibetana il governo di Pechino ha assicurato “confortevole alloggio” a 1.430.000 persone (300.000 famiglie), così come previsto dal Piano Quinquennale 2006-2010, e ha annunciato che altre 185.500 famiglie (circa 880.000 persone) saranno trasferite entro il 2013 in nuove abitazioni a proseguimento della campagna di sedentarizzazione e collocamento in nuove abitazioni della popolazione rurale tibetana. Nel marzo 2011, le autorità della Provincia dei Qinghai hanno reso noto di aver costruito, tra il 2009 e il 2010, 46.000 nuovi insediamenti e di volerne costruire altri 25.000 per 134.000 famiglie. Uno degli aspetti principali – e fonte di turbamento per molti tibetani – della politica riguardante le comunità dei pastori è il suo impatto sulla cultura tibetana: senza un adeguato progetto a lungo termine sui mezzi di sussistenza di cui potranno fruire dopo essere stati costretti ad abbandonare il loro tradizionale stile di vita, questi cambiamenti avranno un impatto sociale negativo che è possibile già percepire nell’aumento dei reati e dell’alcolismo.

Una volta allontanati i nomadi, la terra del Tibet è aperta allo sfruttamento operato dalle società cinesi. Il Tibet è ricco di risorse naturali, compresi oro, rame e acqua per alimentare le centrali idroelettriche. In molte aree, le compagnie minerarie e la costruzione delle dighe hanno ormai soppiantato l’agricoltura. I tibetani protestano contro le conseguenze di questi progetti dannosi per l’ambiente, attuati senza una corretta consultazione della popolazione locale e senza una valutazione dell’impatto ambientale e sociale.

Gli effetti negativi dei mutamenti ecologici in Tibet potrebbero estendersi ben oltre l’altopiano dove le temperature stanno crescendo più rapidamente che nel resto del globo. I ghiacciai si stanno sciogliendo. Il flusso delle acque e le caratteristiche dei monsoni sono più variabili. Allo stesso tempo, lungo questi importanti fiumi la Cina sta portando avanti la costruzione di un grande numero di dighe. I progetti aggiuntivi di deviazione delle acque verso aree del paese che soffrono la siccità potrebbero avere devastanti conseguenze sugli stati che si trovano a sud dei corsi d’acqua deviati, come l’India, il Bangladesh, la Cambogia e il Laos la cui sopravvivenza dipende dai fiumi che scendono dal Tibet.

Un’altra grande  minaccia è costituita dal massiccio afflusso di cinesi Han nelle aree tibetane. Questo trasferimento demografico ha causato la marginalizzazione e l’assimilazione dei tibetani nella loro stessa terra con conseguenze negative non solo sulle condizioni socio-economiche dei tibetani ma anche sul fragile equilibrio ecologico del tetto del mondo.

Le auto-immolazioni

Dal febbraio 2009, in Tibet si sono auto immolati 123 tibetani. Purtroppo, 106 sono morti. Appena due giorni fa, il 3 dicembre, c’è stata un’altra immolazione nella Contea di Machu, nel Tibet nord orientale. Questa forma di protesta politica non ha precedenti nella storia del Tibet. Sono persone di diversa provenienza sociale – uomini, donne, monaci, monache, nomadi, contadini e studenti. Sono tibetani di tutte le regioni del Tibet, dell’U-Tsang, del Kham e dell’Amdo, e della stessa capitale, Lhasa. Tutti chiedono il ritorno del Dalai Lama in Tibet e la libertà del popolo tibetano. Dal 1973, Sua Santità il Dalai Lama è venuto in Italia più di venticinque volte e nel corso delle sue visite migliaia di italiani hanno potuto incontrarlo e ascoltarlo: questo diritto è però negato ai tibetani all’interno del Tibet.

L’Amministrazione Centrale Tibetana non sostiene o incoraggia le auto-immolazioni. Anche la posizione del Dalai Lama nei confronti di qualsiasi gesto estremo è stata  chiara e costante: ha sempre chiesto ai tibetani di non ricorrere a gesti disperati. In quanto Buddisti, noi crediamo nella sacralità della vita; tuttavia, essendo loro negata ogni forma di protesta convenzionale, ai tibetani non resta altro che mandare al mondo l’inequivocabile messaggio del totale fallimento delle linee politiche della Cina in Tibet. L’Amministrazione Centrale sente la responsabilità morale di parlare a nome dei tibetani affinché il mondo possa comprendere le loro azioni.

Anziché prendere in considerazione le cause profonde che sono alla base delle auto-immolazioni, le autorità cinesi le hanno criminalizzate e hanno gridato al colpevole accusando Sua Santità il Dalai Lama e la comunità dei tibetani in esilio di esserne gli istigatori. Sono arrivati al punto di impedire alle famiglie degli auto immolati di celebrare i tradizionali riti funerari. L’Amministrazione Tibetana ha perfino invitato i rappresentanti del governo cinese a venire a Dharamsala e visitare i nostri uffici per verificare l’infondatezza delle loro accuse.

In realtà, sia la colpa sia la soluzione dipendono da Pechino. Le auto-immolazioni sono il risultato di decenni di cattivo governo, sono la protesta del popolo tibetano contro politiche sbagliate. Pechino ha il potere di cambiare radicalmente la situazione riconsiderando le proprie politiche in Tibet e venire incontro ai desideri del popolo rispondendo in modo pacifico alle pubbliche manifestazioni di malcontento. Ecco alcuni esempi che illustrano la situazione attuale:

Nell’anno in corso, il tribunale di Ngaba ha condannato a morte, senza processo, due tibetani – Lobsang Kunchok, il 31 gennaio 2013, e Dolma Kyab, il 15 agosto 2013 –  accusati di essere coinvolti in due casi di auto-immolazione.

Il 24 giugno 2012, Jigme Dolma, una ragazza di 17 anni, aveva inscenato una manifestazione di protesta nel centro della Contea di Kardze, nel Tibet orientale. Chiedeva il ritorno del Dalai Lama, libertà per i tibetani e il rilascio dei prigionieri politici. Le forze di sicurezza cinesi l’hanno brutalmente picchiata ed è stata ricoverata all’ospedale per due mesi al termine dei quali è stata condannata a tre anni di carcere.

Il 6 luglio 2013, le forze di sicurezza cinesi hanno aperto il fuoco a Tawu, nel Tibet orientale, sui tibetani che celebravano il compleanno di Sua Santità il Dalai Lama: 11 tibetani sono rimasti uccisi e 16 sono stati picchiati.

Il 3 settembre 2013, Dayang, un tibetano di 68 anni, è stato condannato a due anni e cinque mesi di carcere. Aveva chiesto il ritorno del Dalai Lama e libertà per i tibetani nel corso di uno spettacolo culturale a Nagchu, nel distretto di Tsachu, Contea di Driru, nel Tibet centrale.

Il 28 settembre 2013, alla vigilia della Universal Periodic Review per la rielezione della Cina al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, le forze di sicurezza cinesi hanno brutalmente infierito sui tibetani del villaggio di Mowa, nella Contea di Driru (Tibet centrale), che si erano rifiutati di issare la bandiera cinese sui tetti delle loro case. Diciassette tibetani sono stati arrestati.

Alcuni giorni più tardi, il 6 ottobre 2013, ancora nella Contea di Driru,  le forze di sicurezza cinesi hanno aperto il fuoco e ferito almeno 60 tibetani che chiedevano il rilascio del compagno che aveva guidato la protesta contro l’ordine di issare la bandiera. Due giorni dopo, quattro tibetani sono morti sotto i colpi d’arma da fuoco delle forze di sicurezza. L’8 ottobre almeno 50 sono rimasti feriti. Il confronto continua anche ai nostri giorni.

L’Approccio della Via di Mezzo

Vorrei concludere questo mio intervento ribadendo il fermo impegno del popolo tibetano alla non violenza e al dialogo. Non guardiamo alla Cina e al popolo cinese con malevolenza ma con rispetto. I tibetani, con la loro peculiare cultura, sono vissuti per migliaia di anni accanto ai nostri fratelli e alle nostre sorelle cinesi. L’Amministrazione Centrale Tibetana si impegna per una soluzione della situazione del Tibet attraverso l’Approccio della Via di Mezzo che chiede per il paese una genuina autonomia nel quadro della Costituzione cinese. Abbiamo formulato questa nostra visione in due documenti: il “Memorandum per una Genuina Autonomia per il Popolo Tibetano” e le “Note sul Memorandum per una Genuina Autonomia per il Popolo Tibetano”. Entrambi i documenti sono stati presentati al governo cinese, rispettivamente nel 2008 e nel 2010. In essi sono delineate le “11 istanze fondamentali” sulle quali i tibetani chiedono l’autonomia: 1) la Lingua, 2) la Cultura, 3) la Religione, 4) l’Istruzione, 5) la Protezione dell’Ambiente, 6) l’Utilizzo delle Risorse Naturali, 7) lo Sviluppo Economico e il Commercio, 8) la Salute Pubblica, 9) la Pubblica Sicurezza, 10) le Norme sulla Migrazione della popolazione e, 11) gli Scambi Culturali, Educativi e Religiosi con gli altri paesi.

Vediamo nella nuova leadership cinese del Presidente Xi Jinping l’opportunità per i paesi che, come l’Italia, possiedono ampie esperienze nel campo dell’autonomia regionale, di discutere con la Cina e renderla partecipe delle proprie riuscite esperienze.

In questi lunghi decenni i tibetani si sono votati alla non-violenza e alla democrazia sulla base delle loro profonde credenze e del loro sistema di valori. Poiché i governi e la comunità internazionale invocano sempre la soluzione pacifica dei conflitti, la forza di questa loro convinzione sarà messa alla prova quando verrà il momento di sostenere pubblicamente i movimenti politici non-violenti quale è quello tibetano. E’ un errore pensare che un governo debba scegliere tra il Tibet e la Cina. Un vero amico della Cina capirà che la soluzione del problema tibetano è diventata il barometro che farà della Cina una potenza globale matura e pacifica.

Chiediamo il sostegno di amici come voi che credono nella libertà e nella democrazia, che credono che la Cina dovrebbe avviare il dialogo per risolvere pacificamente la questione del Tibet.

Per concludere, chiediamo al Senato italiano di raccomandare al Governo italiano di chiedere al Governo cinese quanto segue:

–       Di impegnarsi nel dialogo con gli Inviati di Sua Santità il Dalai Lama per risolvere la questione tibetana sulla base dell’Approccio della Via di Mezzo che chiede una genuina autonomia all’interno della Costituzione cinese.

–       L’immediata cessazione della repressione in Tibet.

–       Che nelle aree tibetane sia garantito l’uso della lingua tibetana quale veicolo di istruzione.

–       La sospensione degli insediamenti forzati dei nomadi.

Infine, di chiedere al Governo italiano di

–       Discutere con il Governo cinese la questione dell’autonomia regionale.

Esprimo ancora una volta la mia gratitudine ai membri del Senato italiano che oggi sono qui e che da molto tempo sono amici del Tibet e del suo popolo. In questo cruciale momento vi chiedo di aiutarci a realizzare le aspirazioni del popolo tibetano. Con il vostro aiuto, anche in Tibet potrebbe esserci giustizia, così com’è in diverse parti del mondo.

Grazie

(Traduzione dall’inglese a cura dell’Associazione Italia-Tibet)