di Guido Santevecchi
Il controllo cinese sta causando profondi cambiamenti nella società tibetana.
Reparti di sicurezza cinesi in uniforme nera, con i caschi, manganelli in pugno sono stati visti marciare per le strade di Lhasa e delle città principali nelle province tibetane in questi giorni. Una manifestazione di forza «senza precedenti», secondo le fonti che hanno riferito l’avvenimento a “Radio Free Asia”. La polizia della Repubblica popolare ha voluto mandare un segnale inequivocabile, a 55 anni esatti dal marzo del 1959, quando a seguito di un’insurrezione anti-cinese fallita il Dalai Lama fuggì dalla regione. Blindati dei reparti paramilitari sono stati piazzati sulle strade d’accesso, i viaggiatori tibetani vengono fermati, identificati e interrogati, racconta l’emittente. Il Dalai Lama è dall’altra parte del mondo. «La Cina è una grande nazione, ma il suo sistema di governo è dannoso», ha detto a fine febbraio il leader tibetano in esilio che sta facendo un giro di conferenze negli Stati Uniti ed è stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Obama, scatenando le consuete proteste di Pechino. «I cinesi hanno il diritto di conoscere la realtà. E una volta che oltre un miliardo di cinesi conosceranno questa realtà saranno davvero in grado di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male», ha detto dal pulpito della cattedrale di Washington. Ma è molto probabile che la realtà di cui parla il Dalai Lama, i cittadini cinesi non la conosceranno. La polizia cinese il 4 marzo ha arrestato un monaco tibetano nella prefettura di Chamdo della Regione autonoma del Tibet: l’accusa è di aver cercato di condividere informazioni «politicamente sensibili» dal suo cellulare, secondo una fonte locale. Pochi giorni prima, un altro monaco era stato picchiato per aver nascosto scritti e video vietati. Anche qui la fonte è dell’opposizione ed è stata rilanciata da Radio Free Asia.
La nuova forma di lotta: le autoimmolazioni. Dopo le proteste diffuse del 2008, alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, i tibetani non sono più scesi in strada a dimostrare contro il governo centrale. Hanno cambiato strategia. In modo tragico, con l’arma del fuoco e delle auto-immolazioni. Sono stati 127 gli uomini e le donne che si sono bruciati vivi in territorio cinese; altri sei hanno compiuto il gesto estremo in India e in Nepal. Il Dalai Lama si è detto turbato. Ma il governo di Pechino sostiene che in realtà i suoi uomini incitano i tibetani, spesso i più giovani, ma anche madri con figli, a uccidersi con il fuoco, davanti alla gente. La polizia ha anche trovato sul web una sorta di manuale con le istruzioni per il suicidio e sostiene che sia stato scritto da un leader molto vicino al vecchio religioso buddista Premio Nobel per la pace nel 1989. Difficile verificare, sulla rete corre di tutto e i giornalisti hanno molta difficoltà ad ottenere visti per recarsi nella regione. Bisogna accontentarsi dei segnali che arrivano, a volte dalle montagne del Tibet, a volte da Pechino.
Sviluppo economico e repressione politica. L’anno scorso, a giugno, alla Scuola centrale del partito comunista nella capitale, si è discusso della combinazione di sviluppo economico e repressione politica. E secondo le relazioni, gli esperti del partito avrebbero convenuto che il sistema non funziona e avrebbero suggerito un nuovo approccio «creativo». Sono circolate voci secondo le quali in alcuni monasteri non era più vietato esporre i ritratti del Dalai Lama. All’ambasciatore americano è stato consentito di andare in missione in Tibet per tre giorni. I politologi hanno ricordato che Xi Zhongxun, il padre del presidente Xi Jinping, rivoluzionario maoista della prima ora, era stato il proconsole di Pechino per il Tibet ed era stato elogiato da Mao per essere riuscito a domare una rivolta nella regione senza usare la forza. Possibile che il nuovo leader della Repubblica popolare cinese abbia deciso di aggiustare rotta? Ma sull’altro piatto della bilancia ci sono i rapporti di organizzazioni per i diritti dell’uomo che denunciano l’istituzione di «nuovi villaggi socialisti» nel Tibet, dove sarebbero stati spostati a forza due milioni di abitanti locali dal 2006. Poche settimane dopo Pechino ha chiarito la posizione. Il numero quattro del Politburo è andato nel Gansu tibetano a dire che «la battaglia sarà portata fino in fondo». E secondo una ong la polizia ha sparato sui monaci che festeggiavano il compleanno del Dalai Lama.
Diritti umani e leopardi delle nevi. A ottobre, quando a Ginevra si è riunito il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per discutere di diritti umani e civili in Cina, un gruppo di attivisti ha scalato il palazzo issando in cima uno striscione che chiedeva libertà per il popolo tibetano. La foto non è stata pubblicata dalla stampa di Pechino, che ha preferito pubblicare un lungo libro bianco governativo dal titolo «La politica in Tibet è corretta». Per il resto, sulla stampa cinese, solo notizie di «cultura e società» dalla lontana regione. Come quella su uno studio dell’Università di Pechino che rivela come i quattromila leopardi delle nevi (Panthera uncia) sopravvissuti a cacciatori, bracconieri e allevatori in Cina sono protetti dalla rete dei monasteri tibetani. Meglio che dai programmi governativi: il motivo è che i monaci dei 300 monasteri nella regione del Sanjiangyuan, oltre ad essere persone tranquille, considerano i leopardi sacri, da quando il Dalai Lama proibì di usare la loro pelle. Quindi si comportano da guardie ambientali, pattugliando le zone di montagna abitate dai felini. In più, i monasteri non seguono le divisioni amministrative della zona e quindi la rete di protezione non subisce disfunzioni burocratiche.
Guido Santevecchi
Corriere.it 14 marzo – 14 marzo 2014