di Ernesto Corvetti
10 aprile 2014
La libertà, in Tibet, passa anche dalla tutela della lingua. Per evitare di farsi fagocitare definitivamente dalla Cina, il governo della regione autonoma ha deciso di elaborare nuove regole per preservare e promuovere la lingua tibetana, a rischio estinzione.
Il Comitato di lavoro sulla lingua tibetana – organismo regionale creato nel 1988 – e le altre autorità sarebbero intenzionate vararle a settembre, secondo quanto ha riportato la Xinhua.
In pratica, la legge dovrebbe sancire con precisione i diritti linguistici dei tibetani, visto che finora le norme si prestavano all’interpretazione – cioè anche all’arbitrio – dei singoli funzionari.
PROTEZIONE AI TIBETANI. La nuova politica dovrebbe «fornire una protezione legale ai diritti e alle libertà delle persone di etnia tibetana per studiare, usare e sviluppare la propria lingua», ha riportato l’agenzia di Stato di Pechino riportando la tesi del Comitato, che ha anche sottolineato come «la decisione mostri chiaramente l’attenzione rivolta al problema da parte del governo centrale e locale».
Tuttavia il problema, come al solito in Cina, consiste poi nell’effettiva applicazione della legge.
Immediata la replica da Dharamsala in India, dove il governo tibetano in esilio ha dichiarato sul suo sito web che la lingua del «tetto del mondo» – composto da vari dialetti – è stata di fatto già ampiamente repressa dal governo cinese, che impone l’uso del mandarino.
IL «GENOCIDIO CULTURALE». La cerchia del Dalai Lama parla, infatti, di «genocidio culturale» facendo soprattutto riferimento al periodo in cui era segretario del Partito comunista cinese in Tibet Chen Kuiyuan (1992-2000). Fu allora, dicono, che il tibetano inteso sia come lingua sia come cultura perse la sua dignità autonoma e venne subordinato al cinese.
La chiave di volta fu la sostituzione dei testi originali tibetani presenti nel corso di studi dell’Università di Lhasa con testi cinesi tradotti in tibetano.
«Il sistema di istruzione del Tibet, controllato interamente dai cinesi e dalla loro ideologia comunista, è orientato a soddisfare le esigenze degli immigrati cinesi», è la versione dei seguaci del Dalai Lama.
PECHINO SMENTISCE TUTTO. Intervistato dal South China Morning Post di Hong Kong, il politologo Barry Sautman ha spiegato che tali obiezioni «vengono da persone che non amano l’idea di essere parte della Cina, di conseguenza non vogliono che la gente impari la lingua del Paese di cui non si vuole essere parte».
«Non c’è stato alcun tentativo di fare estinguere la lingua tibetana», ha aggiunto il politologo, «e non c’è alcuna indicazione del fatto che le leggi siano fatte per dare soddisfazione solo ai migranti non-tibetani».
Per fare carriera i giovani devono affidarsi alla lingua cinese
Quello della lingua è, in effetti, uno dei più grandi problemi delle minoranze etniche cinesi e, al di là delle leggi, rimanda a un dilemma estremamente materiale che riguarda soprattutto i giovani: abbandonare la propria cultura per essere più competitivi in un mondo degli affari – che di fatto parla cinese – o preservare le tradizioni rischiando di restare tagliati fuori?
Le regole di Pechino prevedono l’educazione bilingue nelle scuole tibetane e di altre regioni con minoranze etniche, come lo Xinjiang, ma se un giovane vuole fare carriera, non solo nelle ‘enclave’ professionali tutelate dalle politiche a favore del bilinguismo, deve inevitabilmente prediligere la lingua cinese. Il che, nel corso del tempo, trasforma il tibetano – ma pure l’uiguro, il mongolo e così via – in semplice dialetto.
TRIVELLAZIONI SULL’ALTOPIANO. Un conflitto culturale-materiale, per certi versi simile, è rappresentato dalla recente notizia secondo cui le grandi imprese energetiche cinesi avrebbero scavato un pozzo di sette chilometri di profondità in Tibet, nel tentativo di sfruttare le risorse petrolifere e di gas naturale della regione.
Si tratta del pozzo più profondo mai trivellato a tali altitudini, secondo gli scienziati che stanno seguendo il progetto. È anche un punto di non ritorno, perché la Cina aveva finora mantenuto un profilo molto basso nella sua esplorazione delle risorse in Tibet, a causa sia delle difficoltà a operare in alta quota sia della sensibilità politica della regione.
Ma ora le cose sono cambiate: ad agosto 2013, infatti, il ministero della Terra e delle risorse cinese ha firmato un accordo da 20 milioni di yuan (oltre 2,3 milioni di euro) con Sinopec, il gigante petrolifero, per esplorare «l’enorme potenziale di petrolio e gas naturale».
POZZO RICCO AD ALTA QUOTA. In termini puramente economici, la scoperta di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale nella regione autonoma sarebbe una manna dal cielo sia per l’economia del Dragone sia per quella del Tibet stesso, che ha uno dei più bassi indici di Prodotto interno lordo del Paese.
Le imprese cinesi stanno già lavorando da anni per verificare le stime secondo cui l’altopiano – che comprende Tibet, Qinghai e parti di Gansu, Sichuan e Yunnan – rappresenterebbe il maggiore giacimento di petrolio e gas al mondo, per oltre 10 miliardi di tonnellate complessive. Altre proiezioni dicono che il suolo conterrebbe anche 36 milioni di tonnellate di rame, piombo e zinco, nonché miliardi di tonnellate di ferro.
PECHINO NEL CUORE DEL TIBET. Va però ricordato che ci sono pure esperti che giudicano economicamente fallimentare trivellare l’area, per via dei costi che crescono proporzionalmente alle altitudini.
Al di là della dubbia resa economica e del problema ecologico – si pensi solo che l’altopiano è la più grande riserva d’acqua dolce del Pianeta – scavi e trivellazioni creano spesso tensioni con la popolazione locale che considera sacri alcuni luoghi geologicamente papabili.
Per questo motivo, le autorità tengono per ora segreti tutti i dettagli sulla grande pozzo nel cuore del Tibet.
Ernesto Corvetti
Lettera43.it
10 aprile 2014